"Non chiamatemi più la fotografa della mafia". Incontro con Letizia Battaglia

Foto di Shobha.

E pensare che la macchina fotografica le capitò in mano per caso. “Mi ero trasferita a Milano, proponendo articoli di cronaca ai giornali: volevano anche le foto, così comprai una piccola Minolta”. Erano gli anni ’70: Letizia Battaglia, classe 1935, indossava gonne colorate e zoccoli, era già madre di 3 figlie, separata e scandalosamente legata a un collega molto più giovane. Poco dopo tornava nella sua Palermo e, tra le primissime donne fotogiornaliste in Italia, puntava l’obiettivo contro Cosa Nostra e i morti ammazzati, realizzando gli scatti crudi, in bianco e nero, che le valsero la fama mondiale. Come l’arresto del boss Leoluca Bagarella, o Giulio Andreotti immortalato con il mafioso Nino Salvo.
Oggi, per i suoi 81 anni portati con un’energia curiosa e critica, il Comune di Palermo le dedica la mostra Letizia Battaglia, Anthologia (fino all’8 maggio ai Cantieri culturali alla Zisa): 140 opere che ripercorrono le sfumature del suo sguardo, affettuoso quando si posa su donne e bambini nei rioni più poveri; tagliente quando documenta gli eccessi della nobiltà siciliana. E poi le processioni religiose, le superstizioni popolari e, al centro, quei ritratti rabbiosi di Cosa Nostra che, per la prima volta, mostrarono all’Italia che la mafia esiste, e si può vedere e toccare.

Cos’ha compreso della mafia, guardandola negli occhi?
Prima la pensavo lontanissima, quasi astratta. Un giorno fu ucciso un uomo che conoscevo, in una via di Palermo, e capii che era in corso una guerra civile: l’invasore non arrivava da fuori, era dentro la nostra terra. Fotografando, realizzai che la mafia è solo avidità di potere e di denaro, che dai traffici di droga e armi è passata ai lavori pubblici e alla politica, devastando Palermo.
La sua macchina fotografica è stata un’arma di denuncia.
Facevo ciò che potevo, per scuotere le coscienze mostrando non solo i morti, ma la miseria in città causata dal crimine e dai politici collusi. Ora però sono stanca di essere chiamata “la fotografa della mafia”.
Non le piace la definizione?
È impropria: io sono una fotografa “contro” la mafia. E prima ancora sono una donna che, in mezzo ai problemi della sua terra, cerca la bellezza e la dolcezza.
Sembra trovarla in particolare nelle donne, sempre al centro delle sue foto di Palermo.
Amo ritrarre le donne perché hanno ancora tanti ostacoli da superare verso la felicità, acquistando fiducia in se stesse e realizzando a pieno la propria bellezza. Fotografo anche le bambine, cercando di carpire i sogni nei loro occhi profondi: mi ricordano me a 10 anni, quando mi resi bruscamente conto che il mondo non era così bello e il cielo non così limpido.
Cosa le accadde?
Vivevamo a Trieste e tornammo a Palermo alla fine della guerra. Io scorrazzavo in bicicletta per la città, come avevo sempre fatto: un giorno un uomo mi fermò e aprì il suo impermeabile. Lo riferii a casa e la mia vita cambiò: mio padre mi tolse la libertà, e io sognavo solo di fuggire dalla sua gelosia. Ecco perché le bimbe che ritraggo non ridono mai: le voglio serie nei confronti del mondo, come lo ero io.

La sua vita è stata un modello di emancipazione femminile: il matrimonio a 16 anni, 3 figlie, la separazione non le hanno impedito di affermarsi in un campo che allora era solo maschile. Oggi cosa manca alle donne, per la parità? 
L’indipendenza dagli uomini, non solo economica ma psicologica. Vedo tante schiave dei giochini di questa società che le vuole giovani, belle, senza un filo di grasso, ma perché? È tutto impostato sul desiderio sessuale del maschio, che è possesso e non amore. Io sono una donna assolutamente moderna, ho avuto tante esperienze, eppure oggi mi ritrovo a riflettere molto sull’amore.
Cosa punta a scoprire?
Nell’ultimo numero della mia rivista femminile, Mezzocielo, indaghiamo il confine tra amore e innamoramento, e le ragioni per cui l’amore finisce. È un tema che mi turba perché io invece amo per sempre, anche dopo le separazioni.
Qual è stato il grande amore della sua vita?
Santi Caleca, fotografo. Ha 14 anni meno di me, negli anni ’70 fu un amore importante e tuttora non s’è spezzato l’incantesimo dell’essere belli l’uno per l’altra. Come con un altro fotografo, Franco Zecchin.
E Palermo?
Sì, la amo morbosamente. Con i premi che avevo vinto, avrei potuto vivere a Parigi o a New York, ma Palermo mi ha avvinta. Amo il centro storico per la memoria che conserva, e mi sento profondamente isolana: ho bisogno degli aranci, dei limoni e del mare.

Ancora a proposito d’amore, è vero che è diventata vegetariana per amore di sua figlia Shobha, appassionata di filosofie indiane?
Verissimo: quando ho la tentazione di un involtino alla siciliana, penso a lei e resisto.
Com’è il rapporto con le sue figlie?
Le ho avute a 16, 19 e 24 anni: ero una ragazza inquieta, poco consapevole delle responsabilità di madre. Però ho sempre rispettato la loro libertà, senza mai pensarle come “mie”. Forse qualcosa mi rimproverano, ma restiamo molto unite.
Il periodo più bello della sua vita?
Quand’ero assessore alla Vivibilità urbana del Comune di Palermo, a fine anni ’80, perché potevo fare qualcosa per la mia città. Avevo 800 giardinieri per tenerla pulita, mi occupavo delle donne senza casa. Ero felice.
Ora è felice?
Sì, anche se a 80 anni ho dovuto smettere di flirtare con gli uomini.
Progetti?

Un Centro internazionale di fotografia che aprirà presto a Palermo. Sarà un laboratorio di fotografia, musica, poesia, teatro: faremo cose meravigliose, con i giovani e i vecchi della mia città.

da Donna Moderna, marzo 2016

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