"SENZA DIGNITÀ, NESSUNO PUÒ VIVERE"

Foto di Simona Ghizzoni / Contrasto

Una donna esile allo stremo delle forze. Lo sguardo sgomento, il volto scavato e macchiato di sangue. È il ritratto più tristemente noto di Aminatou Haidar: risale al 2005, lei era stata picchiata dalla polizia e poco dopo scomparve per sette mesi nel buco nero di una prigione segreta. Anche grazie a quella foto raggelante, il mondo conosceva l’esistenza di una terra di nessuno che si chiama Sahara Occidentale, occupata militarmente dal Marocco nel 1975. E l’esistenza del suo popolo, i Saharawi, che vivono spezzati in due da un muro di 2.700 chilometri che taglia longitudinalmente il deserto: metà sono rifugiati in Algeria dal ’75, metà restano in Sahara Occidentale ad attendere un referendum per l’indipendenza promesso dall’Onu, mentre i gendarmi marocchini soffocano ogni rigurgito di protesta.
Aminatou Haidar ha 47 anni, due figli, due incarcerazioni alle spalle senza processi, un lungo sciopero della fame all’aeroporto di Lanzarote, alle Canarie, dove le autorità marocchine l’avevano bloccata nel 2009.
Alta e sottile, provata ma rassicurante, è il volto-simbolo della lotta del suo popolo: attraverso di lei, si sono mobilitate per i Saharawi le principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, compreso il Robert F. Kennedy Center for Human Rights. Ed è su loro invito che dialoghiamo con questa signora ormai nota come la “Gandhi del Sahara Occidentale”.  



Come ci si sente nell’accostamento alla più grande icona di non-violenza?
Mi auguro di esserne all’altezza, ma sono anche orgogliosa di aver conquistato credibilità internazionale con la nostra protesta non violenta e il rispetto che continuiamo a nutrire per il popolo marocchino. Purtroppo, però, sto perdendo speranza nelle nuove generazioni saharawi che scalpitano affinché si trovi una soluzione per la nostra gente, dopo tutti questi anni. Temo che questi giovani finiscano per ricorrere alla violenza.
Quando aveva vent’anni, lei è stata incarcerata per la prima volta, e per 4 anni la sua famiglia l’ha creduta morta. Come si supera un’esperienza simile?
Migliaia di Saharawi sono stati vittime di sparizioni forzate, e io con loro. Quando mi hanno rilasciata non ero in grado di camminare, la mia colonna vertebrale era danneggiata. Ero uscita da un inferno senza nome: rinchiusa con gli occhi bendati, seduta faccia al muro, mentre le guardie minacciavano di stuprarmi... Si supera parlando al mondo delle violazioni dei diritti umani in Sahara Occidentale. E continuando a credere che la società civile possa far cambiare direzione ai governi. 
Com’è la sua vita quotidiana a Laayoune, in Sahara Occidentale?
Ogni volta che vado all’estero a parlare del mio popolo, subisco intimidazioni e non so mai se le autorità marocchine mi faranno rientrare, com’è accaduto nel 2009 a Lanzarote. Nel novembre del 2012, dopo aver incontrato il rappresentante speciale dell’Onu che visitava il nostro territorio, sono stata aggredita dalla polizia e minacciata di morte. Ma ciò che più mi ha ferita è stato il lancio di sassi contro le finestre di casa: i miei figli erano terrorizzati.
I media internazionali si occupano poco dei Saharawi. Per quale motivo, secondo lei?
Eppure ci sarebbe tanto da scrivere... Siamo un popolo africano e beduino con valori universali, e le nostre donne sono da sempre emancipate e protagoniste nella società. Io per esempio sono divorziata, da noi è normalissimo. Inoltre il Sahara Occidentale e i nostri campi profughi stanno in un’area instabile dell’Africa, al crocevia con i ribelli tuareg e le bande di Al Qaeda: portare la pace e l’indipendenza da noi contribuirà alla stabilità di tutta la regione.
C’è mai stato un momento in cui ha pensato di abbandonare la battaglia civile per il bene dei suoi figli?

Quando mi hanno incarcerata nel 2005, loro erano piccoli e soffrivo pensandoli continuamente. E così durante lo sciopero della fame a Lanzarote. Ma il mio essere madre non mi ha mai spinta a fermarmi: proprio perché la mia generazione sta soffrendo, io sento il dovere di continuare affinché i nostri figli vivano nella pace. Se mi fermo, resterò viva ma perderò la dignità: i miei figli sopravvivranno anche da orfani, mentre senza dignità nessuno può continuare a vivere, e nessuno vale più nulla. 

da Io donna, 30 novembre 2013. Grazie al Robert F. Kennedy Center for Human Rights

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