PROCESSO ALLA PRIMAVERA ARABA


Foto di Simona Ghizzoni / Contrasto
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Sono in 24. Sono saharawi. Sono in galera da due anni a Saleh, in Marocco, accusati di associazione per delinquere e di omicidi plurimi. Due anni senza un interrogatorio, un’udienza, una bozza di processo.
Ennaama Asfari e gli altri 23 sono stati arrestati in Sahara Occidentale dopo i fatti di Gdeim Izik, il campo tendato allestito nel deserto dai saharawi che reclamavano al Marocco piu’ diritti, parita’ e democrazia. Era l’ottobre del 2010 e Gdeim Izik, come vi ho raccontato altre volte, e’ stato interpretato come il preludio della primavera araba. Un pacifico grido di protesta soffocato l’8 novembre del 2010, quando l’esercito e le forze speciali marocchine hanno smantellato il campo accendendo una miccia che in pochi giorni ha incendiato i principali centri del Sahara Occidentale.



Le cifre ufficiali di parte marocchina parlano di decine di morti e centinaia di feriti tra le forze dell’ordine, ma è stata resa pubblica l’identità di una sola vittima. Gli attivisti saharawi denunciano invece l’uccisione e la scomparsa di decine di loro compagni. 
Subito dopo le fiamme a Gdeim Izik, a diversi osservatori internazionali e giornalisti e’ stato vietato l’ingresso in Sahara Occidentale. E il Marocco ha rifiutato l’apertura di un’inchiesta internazionale su un evento che resta tuttora sinistramente emblematico e nebuloso.
Stamattina volevo scrivere un post proprio sul processo che stava per aprirsi a Rabat. Davanti alla Corte militare erano attesi i 24 saharawi detenuti da troppo tempo, due anni. Un processo che avrebbe dovuto iniziare lo scorso gennaio, quando io ero in Sahara Occidentale e parlavo con Brahim Dahane, storico attivista per i diritti dei saharawi sotto l’occupazione marocchina, un signore cortese e pacato che da oltre vent’anni entra ed esce di galera ed e’ considerato dalle autorita’ marocchine il pregiudicato numero uno nella citta’ di Laayoune. 
Brahim quel giorno si stava mettendo in auto verso Rabat per assistere alla prima udienza del processo. Quando sono andata a pranzo a casa sua, due giorni dopo, mi ha raccontato che l’udienza era stata differita a data da destinarsi. E tutti loro erano preoccupati per le condizioni di detenzione dei compagni, che secondo il Codice penale marocchino rischiano la pena di morte.
Anche oggi non si terra’ nessun processo, a Rabat. Il gruppo di Brahim Dahane (ASVDH, Associazione delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani) mi ha scritto stamattina che la Corte marziale marocchina lo ha posticipato sine die. Il procuratore ha spiegato il rinvio dicendo di non aver avuto il tempo sufficiente per esaminare un caso in particolare, quello di Lbakai Laarabi.  
“Perche’ dei civili devono essere giudicati da un tribunale militare?” si chiede Brahim Dahane. “Secondo la legge marocchina - fa inoltre notare l’attivista - non si puo’ tenere in carcere una persona per oltre un anno senza processo. Lo stesso Stato marocchino, dunque, sta andando contro le proprie leggi”.
A Rabat sono attesi in questi giorni osservatori internazionali da mezza Europa. Dall’Italia, arriveranno il giudice Nicola Quatrano di Napoli e l’avvocato Roberta Bussolari di Modena, che hanno sottolineato le troppe lampanti ambiguita’ contenute negli atti d’accusa. La piattaforma internazionale di advocay Avaaz ha lanciato una petizione online per riuscire a spedire al governo marocchino 2.000 firme e pretendere un processo rapido e trasparente per i 24 detenuti. 
Un altro capitolo scuro, malamente dimenticato, della storia della gente del Sahara.

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