L'ANTIGONE DEL SAHARA



Ismene: Non è una questione di principi: semplicemente, non ho la forza di agire sfidando la città.
Antigone: Cerca pure dei pretesti: io andrò a cospargere di terra il fratello che amo.

Antigone è figlia di Edipo, re di Tebe. Il suo mito compare per la prima volta nell’omonima tragedia di Sofocle, nel 442 avanti Cristo, ed è così potente e moderno da essere ripreso e adattato da altri drammaturghi nel corso dei secoli: Vittorio Alfieri, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Perché Antigone non è una donna: è l’incarnazione dell’etica allo stato puro, del principio morale che si scopre talmente granitico da non poter mai, per sua stessa essenza, piegarsi ad alcun compromesso. A costo della stessa vita.
Antigone è una personificazione ante litteram dell’imperativo categorico di Kant, quella “legge morale dentro di me” che diventa autorità, obbligo, dovere supremo da assolvere. A cui mai si può contravvenire.


La figlia di Edipo si trova a un bivio. I suoi fratelli, Eteocle e Polinice, si sono ammazzati a vicenda nella guerra per la riconquista della città greca di Tebe. E il nuovo sovrano Creonte accorda sepoltura soltanto al primo: Polinice è considerato un traditore della patria, e il suo cadavere lasciato sul terreno, in pasto a cani e avvoltoi. Nell'estremo sfregio.
Antigone dice no. Disubbidisce all’editto del re, si avvicina di nascosto al corpo del fratello e gli getta sopra, con pietà e profondo amore, un poco di sabbia. Una sepoltura simbolica. Ma sufficiente affinché l’animo di Polinice sia ammesso nell’Ade, l’aldilà, e trovare pace.
La giovane segue il suo imperativo morale infrangendo la legge dello Stato: è il conflitto tra le leggi divine e quelle umane, tra ciò che deve essere e ciò che è. Antigone non si fa tentare dalla pavida debolezza della sorella Ismene, che cerca di fermarla. E infine Creonte fa portare via in catene la giovane irriverente, sostenendo che le questioni di Stato prevalgono sempre sugli affetti.
Antigone non fa marcia indietro. Ciò che è realmente giusto, lei lo ha compiuto fino in fondo. E per questo sarà condannata dal tiranno a essere murata viva.

Quando ho incontrato Leila Dambar a Laayoune, in Sahara Occidentale, ho subito pensato al mito di Antigone. Anche Leila persegue il suo imperativo categorico contro le leggi dello Stato. Anche lei, piccola donna a testa alta di fronte al gigante, non ha paura di nulla perché la sua tensione morale e affettiva la irradia di una forza superiore.
Suo fratello Said aveva 21 anni quando è stato ucciso dalla polizia marocchina. Era il 21 dicembre del 2010. Laayoune era stata scossa dalla protesta popolare più massiccia degli ultimi vent’anni, nell’ex colonia spagnola occupata dal Marocco: il campo tendato di Gdeim Izik, allestito fuori città da decine di migliaia di saharawi, gli abitanti originari del territorio che dal 1975 reclamano il referendum per la loro indipendenza. Era il loro modo, pacifico e a tratti festoso, di chiedere al governo marocchino più diritti e democrazia per loro che qui ormai sono una minoranza sebbene il diritto internazionale abbia sancito che il Sahara Occidentale non è legittimamente marocchino, bensì un lembo d’Africa ancora da decolonizzare
Said era fuori con gli amici, quella sera, a seguire alla televisione una partita della sua squadra del cuore, il Barcellona. Alle 20 ha telefonato a casa chiedendo a una delle sorelle di tenergli in caldo la cena, perché avrebbe fatto tardi. “Se avessimo saputo che era l’ultima volta che sentivamo la sua voce...” mi ha sussurrato Leila fra le lacrime.
Alle tre di notte qualcuno ha bussato con violenza alla porta di casa Dambar. E non era Said. La polizia che veniva a riferire che il ragazzo aveva aggredito un agente, restando ferito nello scontro: soltanto una lussazione al braccio.
Tutta la famiglia s’è recata in ospedale, ma fino alle 11 del mattino nessuno ha portato loro notizie di Said. Finché un infermiere capace di pietà ha riferito loro, di nascosto dai medici: “Said ha una pallottola in mezzo agli occhi, e una benda stretta attorno al petto. E’ morto”.

Come e perché Said Dambar abbia perso la vita, resta un mistero. Dal 21 dicembre del 2010 la famiglia chiede alle autorità marocchine di eseguire l’autopsia sul corpo del ragazzo, per poterlo finalmente seppellire. Ma finora non è arrivata alcuna risposta, e Said giace all’obitorio di Laayoune da allora.
Leila continua a piangere: il pensiero che suo fratello non possa trovare pace dentro la terra la dilania, ma senza la verità non potrà mai esserci, per lei e per la sua famiglia, un autentico rito funebre. E questa donna non ha potuto nemmeno, come l'Antigone del mito, gettare una manciata di sabbia a coprire simbolicamente il corpo del suo caro.
“Nell’Islam, dare sepoltura ai morti è un dovere. Ma la morte di mio fratello non è normale: riposerà in pace solo quando si saprà il perché della sua morte”.
Durante una delle tante manifestazioni di solidarietà che i saharawi di Laayoune portano periodicamente ai Dambar, riunendosi nella loro casa e condividendo in silenzio il loro strazio, la polizia marocchina ha fatto irruzione. Leila mi mostra i segni delle pietre sui muri, scagliate dagli agenti attraverso la finestra. Sua madre è stata ferita a un occhio. Sullo sfondo, una parete della sala è coperta dal primo piano di Said: un ragazzo sorridente, pulito, che aveva partecipato al campo di Gdeim Izik e forse per questo era sospettato di attività sovversive.
Elghalia Djimi, la vicepresidente dell’Associazione Saharawi delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani (ASVDH), mi ha appena riferito l’ultima tappa di questa cupa vicenda: lo scorso giugno, alcuni funzionari del governo marocchino hanno informato la famiglia Dambar che Said stava per essere sepolto per decisione delle autorità. Li hanno invitati ad assistere alla sepoltura, ma sull’autopsia nemmeno una parola. I Dambar si sono opposti. E ancora oggi non sanno se il cadavere del ragazzo, alla fine, sia stato o no seppellito.
Il 21 di ogni mese organizzano con altri saharawi di Laayoune un sit-in davanti alla loro casa, diffondendo un comunicato in cui reiterano, con compostezza, perseveranza e nessuna traccia di disperazione, la loro richiesta di autopsia.

Quando l’ho incontrata in casa sua, Leila versava caffè e latte per me e Simona, raccontando la sua storia tra i singhiozzi in un francese perfetto. Ripeteva: “Perché? Solo questo vogliamo sapere: perché Said è morto? E’ una richiesta di giustizia. E di pietà”. Sua madre era muta, gli occhi bassi, nessuna lacrima.
Uno stereo nel salotto al piano di sopra diffondeva canti coranici ipnotici e cullanti, che impregnavano la casa di una dissonante atmosfera di pace e di riposo. Come se, sotto il sedimento del dolore e del grido contro l’ingiustizia, non ribollisse in fondo alcun odio, alcun desiderio di vendetta. Soltanto un afflato morale intatto e lucido, superiore a qualsiasi autorità costituita dall’uomo.

L'intervista a Leila Dambar è tra le più intense di JUST TO LET YOU KNOW THAT I'M ALIVE, il progetto di documentario mio e di Simona Ghizzoni, ancora in cerca di fondi.
Per chiunque volesse aiutarci - con una donazione a partire da 10 dollari - a portare a compimento questo documento sulle donne saharawi, la campagna continua fino al 22 novembre al sito di Emphasis.

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