LA PM CHE ASCOLTO' GIUSEPPINA PESCE



La pm della Dda di Reggio Calabria Alessandra Cerreti.
Foto di Francesco Millefiori

Prima di lei, nessuna donna di ‘ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a un magistrato. Ma Giuseppina Pesce, 33 anni da Rosarno, figlia di un boss e imputata per associazione mafiosa, ha guardato negli occhi i suoi figli e ha intravisto per loro un futuro diverso. A rischio della propria vita.
Di fronte a lei un’altra donna: Alessandra Cerreti, siciliana di Messina, pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Che ascolta Giuseppina e porta alla sbarra, nell’inchiesta All Inside, 76 capi e gregari della feroce cosca Pesce, di cui 11 già condannati in primo grado.
Cerreti seguiva anche il tragico caso di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta suicida il 20 agosto 2011.
Con la magistrata, tentiamo un ritratto delle donne di ‘ndrangheta, una holding criminale dal fatturato annuo di 44 miliardi di euro.

Perché il pentimento di Giuseppina Pesce segna una rottura?
Nella ‘ndrangheta, la famiglia mafiosa spesso coincide con quella di sangue, il che complica il percorso collaborativo e ha generato il falso mito dell’invincibilità della ‘ndrangheta. Le collaborazioni al femminile sono eccezionali sul piano sociale, prima che giudiziario: dimostrano che le donne possono ribellarsi alla cultura maschilista della mafia calabrese, intaccandone il prestigio criminale.    
Anche il loro ruolo subalterno nella cosca è un falso mito?
Certo. Quando gli uomini sono detenuti, le donne portano le “ambasciate” nei colloqui in carcere, garantendo la prosecuzione dell’attività criminale. Sono cassiere della cosca o intestatarie fittizie, e trasmettono ai figli il vincolo mafioso. Esiste persino la “ninna nanna du malandrineddu”, in cui la mamma canta al bimbo: cresci in fretta, vendica tuo padre...   
Come può nascere il pentimento, in un sistema tanto chiuso?
Per queste donne, la collaborazione con la giustizia è un atto d’amore verso i figli, per i quali desiderano un futuro di scelte libere: che i ragazzi non diventino soldati della cosca e che le ragazze non sposino un mafioso, com’è toccato a loro. Spesso si affacciano al mondo attraverso i social network: sebbene allevate secondo modelli obsoleti, per aprire i loro orizzonti basta un clic, e la ‘ndrangheta non può controllarlo. A volte intraprendono relazioni in rete e, per la prima volta a 30 anni, sono corteggiate non come le figlie del boss ma come donne qualunque. È comprensibile che esplodano emotivamente
Com’è la vita di una donna di mafia in Calabria?
Le collaboratrici dicono che, di norma, a 13 anni si viene spinte al matrimonio per rinsaldare alleanze mafiose e a 14 si ha il primo figlio. In quella subcultura la donna è un patrimonio, strumento di alleanze. I bambini maneggiano coltelli già a 12 anni, e a 14 la pistola. Ma una donna mandava il figlio all’oratorio contro il volere del marito, dimostrando che una madre può recidere il laccio mafioso. Quel bimbo, oggi, vuole diventare carabiniere.
Perché Giuseppina Pesce s’è fidata proprio di Alessandra Cerreti?
Un magistrato donna può abbattere la barriera del pudore, che in loro è forte. Una volta, con un collega, interrogai una donna reticente sulla sua relazione extraconiugale. Lei mi chiamò in disparte dicendo: “Mi vergogno perché c’è un giudice uomo. Se vuole lo dico a lei”. 
Solo con l’omicidio Fortugno nel 2005 e la strage di Duisburg nel 2007 si sono accesi i riflettori sulla ‘ndrangheta. Come mai tanto ritardo?
La Calabria ha subito un desolante silenzio informativo. Le testate nazionali non hanno una sede qui e gli eventi criminali, tranne quelli eclatanti, sono ridotti a beghe calabresi. Ma le recenti inchieste, prima fra tutte Crimine, condotta in coordinamento tra la nostra procura e quella di Milano, hanno dimostrato che la ‘ndrangheta non è un’accozzaglia di bande bensì una mafia tra le più potenti al mondo, con il cuore e il cervello in provincia di Reggio e ramificazioni ovunque. Ha una struttura unitaria, articolata nei tre mandamenti tirrenico, jonico e Reggio città, e coniuga riti tribali e modernità: un altro suo punto di forza. I figli dei boss oggi studiano all’università, sono professionisti. E se prima era il politico a chiedere voti al boss, oggi i boss cercano di far eleggere i propri uomini.
Lei ha iniziato la carriera a Milano, per poi venire a Reggio. Scelta o caso?
Una scelta, un atto doveroso: volevo stare in prima linea nel mio Sud. Sono arrivata qui il 20 gennaio 2010, durante la stagione delle bombe alla procura di Reggio, ma anche nel pieno di un nuovo impulso investigativo: l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Michele Prestipino avevano compreso che, per sconfiggere una ‘ndrangheta che è una e forte, le forze dell’ordine e le procure devono fare squadra. I risultati sono evidenti: 2.297 arresti e oltre due miliardi di euro di beni sequestrati in soli 4 anni.
Quali i prossimi passi?
Nel maxiprocesso a Cosa Nostra, i giudici Falcone e Borsellino ottennero una sentenza definitiva che dimostrava che la mafia esiste. In Calabria non abbiamo una sentenza analoga: in ogni processo dobbiamo dimostrare prima l’esistenza della ‘ndrangheta e poi l’appartenenza del singolo imputato. Un lavoro immane. Se la sentenza Crimine diverrà definitiva, il panorama giudiziario cambierà. E se pensa che la ‘ndrangheta è stata inserita tra le associazioni mafiose solo nel 2010, capirà quanto ancora ci sia da fare.

Da Io donna, 13 ottobre 2012

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