A SIVIGLIA CON SOLTANA



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Ho incontrato Soltana Khaya un sabato pomeriggio ventoso e teso, come tutti i pomeriggi d’inverno a Laayoune, Sahara Occidentale, quando dalla citta’ presidiata dai soldati marocchini si punta alla spiaggia di dune che rotolano dentro il mare, e prima di avere in faccia le onde si aspetta ai check-point, si risponde sempre alle stesse domande (“Qual e’ la tua professione? Hai contatti con le famiglie locali? Cosa fai qui nel Sahara marocchino?”), si sta sulle spine perche’ qui tutto puo’ accadere.
Soltana e’ una ragazza saharawi che studiava all’universita’ di Marrakech, nel 2007.
Partecipava a una manifestazione pacifica per i diritti della minoranza saharawi in Marocco. Nella confusione dei lacrimogeni lanciati per disperdere la folla, un poliziotto le ha dato una manganellata dentro un occhio. All’ospedale, medici e infermieri l’hanno lasciata giacere per ore in una stanza isolata, mentre la polizia la interrogava come una nemica dello Stato e lei pensava solo a spingere il suo occhio dentro l’orbita con un panno lurido.
Ha perso l’occhio, Soltana. Grazie a un’organizzazione svedese, ora ha una protesi ben fatta ma immobile. E il suo sguardo e’ mutilato per sempre.
Piangeva, mentre me lo raccontava quel pomeriggio a Laayoune, dentro una baracca a pochi passi dal mare. Come una bambina che tema ancora quel dolore acuto mai provato in vita sua, quella tortura d’ansia che l’ha attanagliata per una giornata intera, all’ospedale di Marrakech. Pero’ poi, terminato il racconto, come tutte le donne saharawi che ho ascoltato anche lei ha sorriso lievemente, ha alzato la testa, e lentamente s’e’ messa a preparare il te’. Quel rito cadenzato e ipnotico che ferma il tempo, ti incanta con il gioco dei flutti alti e dei bicchieri mischiati. E alla fine riesce a riconciliarti con tutto.

Soltana in questo momento e’ accanto a me, sdraiata, e parla al cellulare. Siamo entrambe a Siviglia, all’Universita’ Pablo de Olavide che ha organizzato un festival e un convegno sulle donne saharawi. Quelle che nel deserto algerino riescono a far crescere gli orti, e che nel Sahara Occidentale occupato continuano a credere in un’indipendenza troppo a lungo promessa. Nel piazzale dell'ateneo hanno allestito una haima, la tenda tradizionale del popolo del deserto, dove abbiamo pranzato a cous cous e ora ci concediamo una piccola siesta.
Soltana e’ qui per portare la sua testimonianza, riferire le altre violenze subite dopo quella piu’ lacerante, raccontare la vita quotidiana in una delle ultime colonie rimaste al mondo.
Io sono stata invitata a parlare del progetto di documentario a cui sto lavorando con Simona Ghizzoni, JUST TO LET YOU KNOW THAT I’M ALIVE. Un viaggio dentro le lacrime e i sorrisi delle donne saharawi, che nella nostra narrazione diventeranno specchi delle donne vittime di violenza in ogni parte del mondo, e di tutti i civili che hanno vissuto una guerra senza perche’ e ora raccolgono i brandelli delle loro anime.

Il nostro progetto e’ in fase di raccolta fondi, e chiunque può' contribuire a partire da 10 dollari.
Se il trailer riesce a darvi anche una piccola emozione, o a porvi anche solo un interrogativo, aiutateci.
A questo link:
http://www.emphas.is/web/guest/discoverprojects?projectID=761


IN SEVILLA WITH SOLTANA



I met Soltana Khaya on a windy and tense Saturday afternoon, one like any winter afternoons in Laayoune, Western Sahara. When from the town guarded by Moroccan soldiers you point to the beach and the dunes rolling into the sea, but before facing the waves you have to cross the check-points, to answer always the same questions ("What is your job? Do you have any contact with local families? What are you doing here in the Moroccan Sahara?"), to feel nervous and uneasy because here everything can happen.

Soltana is a Saharawi girl who was studying at the Marrakech university, in 2007. One day she participated in a peaceful rally for the rights of the Saharawi minority in Morocco. In the confusion of tear gas fired to disperse the crowd, a policeman sticked her in her eye. At the hospital, doctors and nurses left her lying for hours in an isolated room, while the police questioned her as an enemy of the state and she was only thinking about pushing his eye in the orbit with a dirty cloth.

Soltana lost her eye. Thanks to a Swedish NGO, now she has a prosthesis well done but still. And her look is mutilated forever.

She was crying in front of me that afternoon in Laayoune, in a shack by the sea. She looked like a child who still felt a sharp pain he had ever felt in his life, with the torture of anxiety that had gripped her for a full day at the hospital of Marrakech. But then, when she finished telling me the story, like all Sahrawi women I have listened to she smiled slightly and lifted his head, slowly setting to prepare tea. That slow and hypnotic rite that can stop time, enchanting you with the game of hot water and mixed glasses. That rite that’s finally able to reconcile you with anything.



In this moment Soltana is next to me, lying down and talking on her mobile phone. We're both in Seville, at the University Pablo de Olavide, which organized a festival and a conference on Saharawi women. Those women who in the Algerian desert can grow gardens, and in occupied Western Sahara continue to believe in a too long promised independence.

In the square of the university they have set up a haima, the traditional tent of the people of the desert, where we had cous cous for lunch and now we allow ourselves a little siesta.

Soltana is in Spain to tell her story, to report the other violences she suffered after the worst one, to explain the audience the daily life in one of the last colonies left in the world.
I’ve been invited to talk about the documentary project I'm working on with Simona Ghizzoni, JUST TO LET YOU KNOW THAT I'M ALIVE. A journey through the tears and smiles of Saharawi women, who in our narrative become mirrors of the women victims of violence all over the world, and of all the civilians who passed through an incomprehensible war and now try to collect the pieces of their souls.

Our project is still fund-raising: everybody can contribute by donating a minimum of $10.
If the trailer was able to give you a little emotion, or even just ask you a question, please help.
At this link:

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