IMMEDESIMAZIONE O STRANIAMENTO?


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Sono qui, in un internet point nel deserto algerino, distante anche dall'unica citta' nel raggio di migliaia di chilometri, Tindouf. Sono tornata nei campi profughi saharawi, precisamente nel centro di quello che si chiama '27 febbraio', come il giorno del 1976 in cui questi beduini protagonisti di un esodo infinito hanno proclamato la loro Repubblica di sabbia e vento.
Sono qui mentre fuori il sole acceca e dentro, accanto a me che sono l'unica cliente, i due gestori del centro fanno il pisolino pomeridiano.
E' la seconda volta che visito questa terra surreale, una mesta geometria di baracche e tende dove i saharawi abitano dal 1975, dopo che il Marocco ha invaso il loro territorio, il Sahara Occidentale. Non so se nel 2006, quando sono venuta qui per la prima volta, erano i miei occhi a osservare con maggiore incanto, facendosi rapire dai meravigliosi rossi, viola e verdi degli abiti tradizionai delle donne e dagli occhi scuri e ammalianti dei bambini. So solo che questa volta sto avvertendo con violenza, quasi, la miseria estrema, la sporcizia, le condizioni molto poco umane nelle quali, comunque, questa gente riesce a vivere, a studiare, a credere nel futuro. Nonostante un passato di sangue e un presente drammaticamente irremovibile.
Con la fotografa Simona Ghizzoni, consolidata compagna di lavoro e complice di sguardi e sensazioni, stiamo facendo dall'inizio di gennaio un lavoro sulle donne saharawi. Abbiamo ascoltato storie cupe, tragedie intime e collettive mischiate a momenti di estrema dolcezza. Abbiamo preso la mano a donne che sono scoppiate in lacrime davanti ai nostri obiettivi.
Stiamo abitando in casa di una famiglia saharawi, condividendo le difficolta' che loro sembrano aver ormai metabolizzato. La nostra ospite, Nana, poteva vivere e lavorare altrove, ad Algeri come a Parigi, invece ha scelto di restare qui, in questa nebulosa di sabbia. Mi ha spiegato in profondita' il perche', eppure non sono ancora in grado di comprenderlo. E sto riflettendo, dall'inizio del nostro viaggio, su quale possa essere lo sguardo piu' giusto, piu' onesto, per raccontare questi rivoluzionari del deserto, profughi a vita, ancora vestiti con le tute mimetiche della guerra, speranzosi di tornare nella loro terra persino quando tutti i negoziati tra il Fronte Polisario e il Marocco falliscono da sempre.
E' piu' onesta l'immedesimazione con loro o lo straniamento? Non saprei dire perche', in questi giorni difficili, mi sia venuta in mente la dicotomia teatrale fra Brecht e Stanislawsky: l'attore deve immedesimarsi nel personaggio o distaccarsene criticamente, per poterlo rappresentare? E allora cos' e' piu' giusto, per un giornalista? Estraniarsi da cio' che racconta, per riferirlo con piu' lucidita', o parteciparne intimamente per essere un autentico testimone da dentro? Ryszard Kapuscinski diceva che non sarebbe mai stato in grado di scrivere su qualcuno senza aver condiviso con lui un pezzo di vita. Ma qui la partecipazione emotiva rischia di tracimare nella pieta', e io non voglio provare pieta', non e' il mio compito di giornalista, non e' giusto. Sto combattendo la mia personale battaglia sul senso e sulle strade del mio lavoro.
Accanto a me, i ragazzi che gestiscono l'internet point senza ricevere mai uno stipendio continuano a dormire. Mentre scrivevo queste poche e confuse righe, sono entrati vari uomini parlandomi in spagnolo e stringendomi la mano. Qui i giornalisti stranieri sono amici, le donne mostrano le loro ferite sul corpo davanti alla telecamera, l'Islam e' radicato ma non integralista ne' sessista.
Stasera fara' un gran freddo, in casa nostra, e probabilmente non ci sara' acqua. Giocheremo con Nizzar, il figlio minore di Nana, che ha tre anni, non piange mai e ama ballare quando mettiamo la musica di Roy Paci. Il suo unico giocattolo e' una vechia scopa con cui si diverte a smuovere la sabbia fuori dal recinto di casa.
Nemmeno le stelle, la notte, somigliano a quelle del nostro cielo.

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