L'UNESCO CHIUDE BOTTEGA




L’Unesco chiude bottega per il 2011. Non ci sono soldi, il deficit di bilancio tocca i 65 miliardi di euro, pesa immensamente la decisione degli Stati Uniti di bloccare i fondi all’agenzia Onu come ripicca per l’ammissione della Palestina, il 31 ottobre. 
Persino l’Unesco, insomma, è a rischio bancarotta. L’ha annunciato ieri il suo direttore generale, Irina Bokova, prima donna al vertice di questa istituzione.
Ma chi è questa signora con la responsabilità della cultura mondiale sulle spalle? 
La nostra chiacchierata di un anno fa.
Ama lo shopping, il tennis, lo sci. Da ragazza suonava il pianoforte, ora le basta ascoltare Rachmaninov e un po’ di jazz, andare alle mostre di pittura, gli Impressionisti sopra tutti. Studi in Russia e in America, 59 anni, una corposa carriera politica a Sofia e poi diplomatica in Francia, Irina Bokova è figlia di Georgi Bokov, una figura chiave del comunismo bulgaro e direttore del maggior quotidiano di Partito.

Quando il 22 settembre del 2009 è stata eletta direttore generale dell’Unesco, vincitrice sull’allora ministro egiziano della Cultura Farouk Hosni, qualcuno gridò a una presa di posizione anti-islamica.
Lei non si è scomposta, fedele a una certa rigidità est-europea che si allenta quando parla del marito (diplomatico, anche lui, poi alla Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo), dei figli che vivono negli States, dei nipoti.
Irina Bokova è la prima donna al vertice dell’Unesco: una svolta storica per l’agenzia delle Nazioni Unite che designa e preserva gli 890 siti Patrimonio dell’Umanità in 187 Paesi.

Subito dopo la sua elezione, lei ha dichiarato che una donna a capo dell’Unesco avrebbe creato maggiori aspettative. Perché?
I pregiudizi sono ancora forti, inutile nasconderlo. Persino in un’istituzione di alta cultura come la nostra. Tutti danno consigli su come dovresti comportarti e persino vestirti: qualcuno mi ha persino detto che sarebbe il caso che indossassi abiti maschili... 
Come ha risposto?
Creando un team di lavoro per metà femminile. Siamo in dieci e, per la prima volta nella storia dell’Unesco, la metà sono donne, provenienti da diversi Paesi e continenti. Sì, voglio dimostrare che le donne sono in grado di guidare un’organizzazione tanto importante, magari meglio degli uomini.
Lei ha auspicato che l’Unesco diventi “un laboratorio di idee per l’intero sistema Onu”. Pensa forse che l’agenzia abbia perso colpi, negli ultimi anni, in termini di forza culturale?
L’Unesco ha una storia di 66 anni, è stata concepita dai padri delle Nazioni Unite, dopo la guerra, perché fosse la coscienza dell’umanità, una guida morale e una forza intellettuale trascinatrice dell’umanità. Grandi intellettuali e artisti hanno partecipato alla sua fondazione. Negli ultimi vent’anni, da quando il mondo non è più diviso in due blocchi contrapposti, l’Unesco ha smesso di essere il cuore dell’Onu, e la stessa Onu non è stata più al centro degli eventi globali: ora però credo che si torni a guardare al ruolo delle Nazioni Unite. Perché il mondo non è più bipolare, le sfide sono diventate comuni, c’è la globalizzazione, i bisogni di sviluppo sono così urgenti che occorre agire insieme. Ed è ritornato il bisogno di pensiero, la riflessione su cosa sta accadendo nel mondo, dove stiamo andando, quali sono le soluzioni da trovare: io credo che l’Unesco possa stare al cuore di questo dibattito, credo nel potere delle idee e delle parole, e credo che possiamo fare la differenza.
I criteri di scelta dei siti Unesco sono stati spesso criticati: qualcuno dice che sono troppi, altri che non sono abbastanza. Di alcuni siti, poi, non si è capita la necessità: le capanne di fango di Koutammouko in Togo, le piantagioni di caffè nel sudest di Cuba... 
Non sono io a scegliere i siti, ma un comitato di 21 esperti che lavora secondo la Convenzione sul Patrimonio dell’Umanità. Eleggere un sito porta così tanto orgoglio alla gente del luogo - penso soprattutto all’Africa - che a volte l’importanza della scelta sta proprio in questo, più che in un valore artistico e culturale. Penso alle tombe di Kasubi in Uganda, per esempio: le ho visitate due volte, e se dal punto di vista architettonico non hanno un pregio magistrale, portano comunque un immenso valore storico e spirituale per la popolazione.
Le associazioni per i diritti umani continuano ad attaccarvi a causa del Premio Obiang: tre milioni di dollari donati all’Unesco dal dittatore della Guinea Equatoriale, fra i capi di Stato più controversi al mondo. Come uscirete da questa situazione imbarazzante?
E’ una decisione di tre anni fa. Ancora prima che le organizzazioni umanitarie insorgessero, avevo chiesto al consiglio esecutivo dell’Unesco di non accettare il premio perché minacciava il nostro prestigio. Mi sono battuta, ma la decisione finale spetta al consiglio esecutivo, non al direttore generale.

Il 4 ottobre 2011, il consiglio ha deciso di sospendere, ancora, i tre milioni di dollari “sporchi”, nonostante l’opposizione dei membri africani del board. Ma la questione non è ancora chiusa: alla prossima riunione, nella primavera del 2012, se ne riparlerà. E forse, vista l’indigenza appena dichiarata dal direttore generale dell’Unesco, quei tre milioni faranno gola.

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