DAI TETTI DI GAZA A MONTECARLO




Nella confusione di treni, aerei, autobus, fuoristrada, arrivi, partenze, valigie (una ancora da disfare...), escursioni termiche, inglese, francese, zulu, afrikaaner, arabo, mi ritrovo solo ora, a distanza di un mese quasi, a poter scrivere degli strani giorni passati a Montecarlo. 
Strani e speciali non per questioni turistiche-estetiche-festaiole-tiriamocela, ma perché sono stata una dei 5 finalisti nella sezione stampa dell’Anna Lindh Foundation Mediterranean Journalist Award. Che non è esattamente un premiuncolo, promosso dalla Fondazione Anna Lindh per diffondere multiculturalismo, informazione sull’area mediterranea, relazioni tra chi ama raccontare storie con onestà. 

Il mio articolo A Gaza, sognare non è più proibito, sulla sorprendente gioventù della Striscia più martoriata del Medio Oriente, è piaciuto alla giuria. E - i casi della vita - la prima sera, a cena, mi hanno fatta accomodare accanto a una ragazza giovane, carina, che sorseggiava da un enorme bicchiere di vino bianco...
“Oddio, ma tu sei Asmaa!”. Già, era Asmaa Al Ghoul, blogger di Gaza City, ventottenne dal carattere spigoloso e la faccia tostissima che è entrata e uscita di galera svariate volte perché al regime islamico di Hamas non piace quello che scrive sul suo blog (solo in arabo, purtroppo).
Mi ha raccontato che è uscita da Gaza attraverso il valico egiziano di Rafah, s’è trasferita al Cairo dove tenta di assaporare una libertà tutta nuova. Avevo incontrato Asmaa a Gaza City, lo scorso aprile, durante una festa su un tetto, al tramonto, organizzata in ricordo di Vittorio Arrigoni. Asmaa fumava, parlava al cellulare, e intanto mi invitava ad assaggiare tutto quel che c’era sui tavoli: mtabbal, hummus, tabbuleh. 

Non sapevo ancora che fosse lei, la famosa blogger tanto temuta da Hamas. L’ho scoperto dopo, ho tentato di intervistarla, lei m’ha dato un appuntamento ma quel giorno s’è poi negata. Al diavolo, ho pensato.
Rivedendola a Montecarlo, osservandola nella sua semplicità di ragazza palestinese sorpresa dal mondo fuori, ho capito che Asmaa non aveva fatto la preziosa: forse aveva semplicemente da fare, perché adesso, al tavolo della cena, era invece più che affabile. Siamo state vicine tutto il tempo, e io l’ho vissuta come una specie di ultima puntata del mio piccolo viaggio attraverso le ferite e i sogni dei giovani di Gaza City.

Asmaa Alghoul, insieme al giovane (e simpaticissimo) giornalista egiziano Mohamed El Dahshan, ha ricevuto la menzione d’onore per le sue cronache coraggiose. Insomma, erano loro due le star della cerimonia al Museo Oceanografico del Principato di Monaco, non certo il principe Alberto che s’è presentato in pantaloni sportivi beige come se andasse a passeggio. 
Asmaa aveva provato il suo breve discorso il giorno prima, a pranzo con noi: voleva parlare di suo nonno, di quanto gli fosse grata per l'anticonformismo e l'assenza di paura che le aveva sempre trasmesso, e di quanto si sentisse in colpa perché lei non era lì, accanto a lui, al momento della sua morte. Voleva dedicare il premio a quell'uomo così moderno e singolare ma temeva di mettersi a piangere, "non voglio piangere davanti a tutti, forse è meglio che pensi a qualcos'altro da dire". Invece ha detto proprio quello. E ha pianto soltanto alla fine, soltanto un pochino. Senza sbavature.
Quanto agli altri premi, io non ho vinto, accidenti! La concorrenza era oggettivamente spietata. Mi sono però goduta il mio momento di gloria quando sul maxi schermo sono comparse le foto dei finalisti della mia categoria, e la mia foto - modestamente - sembrava quella di una diva nel suo chicchissimo (e ritoccatissimo) bianco e nero.
La cosa davvero speciale, però, è stata chiacchierare e confrontarsi con colleghi stranieri bravissimi, impegnati, colti, poliglotti, e - in mezzo a giornalisti italiani sarebbe mai possibile? - che non si davano arie nemmeno per sbaglio.

C’era Iason Athanasiadis, il reporter greco incarcerato in Iran durante le controverse elezioni del 2009. Il promettente Abdel Aziz Hali del giornale tunisino La Presse, un ragazzone gioviale che insieme a Iason s’è portato a casa il premio speciale sui diritti umani. La deliziosa Rania Al Malky, caporedattore di Daily News Egypt, finalista nella sezione stampa insieme a me, alla meravigliosa Carolin Emcke del tedesco Die Zeit e alle due colleghe che poi hanno vinto ex aequo: Rachel Shabi, anglo-israeliana freelance per The Guardian, The Independent e Al Jazeera, e Mekioussa Chekir dell’algerino La Tribune.
Dopo la premiazione (e parecchi bicchieri di Champagne), la libanese Nada Abdelsamad della BBC di Beirut (vincitrice nella categoria tv) mi ha trascinata al casinò, dove mi sono limitata a giocare 20 euro e per fortuna perché le ho perse. Nada, invece, ha quasi fatto esplodere una slot machine, ha saggiamente detto “Mi fermo qui, andiamo”, ha raccattato le monetine e ci ha invitati tutti a bere al Buddha Bar. 
Dimenticavo. Il presidente della giuria era Edgar Morin.

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