GAZA, LA FESTA PER L'ADDIO A VIK

Canti, danze, concerti rap. Così i ragazzi della Striscia hanno dato l'ultimo saluto a Vittorio Arrigoni, l'attivista per i diritti umani barbaramente ucciso qui il 15 aprile. E promettono di portare avanti i suoi sogni. 



L’appuntamento è alle 5 e mezza del pomeriggio al Gallery Cafè, nel centro di Gaza City. E’ in questo luogo anomalo per il regime islamico di Hamas - un bar all’aperto con poltrone in vimini dove si beve tè e si fuma shisha in un’atmosfera occidentale - che i giovani della Striscia hanno organizzato l’addio a Vittorio Arrigoni, l’attivista per i diritti umani barbaramente ucciso qui il 15 aprile.

E’ la domenica di Pasqua. La cerimonia funebre a Bulciago, provincia di Lecco, è appena terminata e ne inizia un’altra, simbolica, a Ramallah. A Gaza, in centinaia si sono riuniti al Gallery per seguire su un maxischermo l’evento in Cisgiordania, e poi danno inizio alla loro festa. Perché Arrigoni avrebbe voluto così, dice chi lo conosceva bene.
Un funerale gioioso, con vestiti colorati, musica e cibo. E i ragazzi di Gaza, gli stessi che lo incontravano ogni giorno in questo caffè, lo hanno accontentato.






I discorsi sono brevi ed emotivi: Khalil Shaheen dell’organizzazione Pchr (Centro palestinese per i diritti umani), grande amico di “Vik”, frena a stento le lacrime e chiama “traditori” i suoi assassini. Silvia Todeschin e Inge Neefs, attiviste come Arrigoni dell’International Solidarity Movement, leggono i loro ricordi in inglese e in italiano e concludono: “Ora tocca a noi portare avanti i tuoi sogni”. La notte del 15 aprile, era toccato a loro il compito straziante di riconoscere il corpo.
Mentre nel Palasport di Bulciago, di fronte a circa duemila persone, il vescovo di Gerusalemme monsignor Hilarion Capucci parla di Vittorio come di “un martire, un eroe e un santo”, qui a Gaza si preferisce il linguaggio della musica. E’ uno spettacolo di danze tradizionali, canzoni accompagnate dall’ud e persino un concerto del rapper gazawi Mohammed Antar che infiamma la platea di giovani. Oggi, a Gaza, ci si dimentica di Israele e soprattutto di Hamas, con i suoi divieti in nome della morale islamica: due ragazze danzano la Dabka su una melodia vorticosa, e qui per le donne ballare è haram, proibito. Ed è bandito anche il rap, come tutte le musiche di matrice occidentale. 



Questi giovani si sono dati un nome: movimento “15 marzo” perché quel giorno, forti di speranza dopo la rivoluzione in Egitto, sono scesi in piazza a manifestare pacificamente contro la dittatura di Hamas e molti hanno pagato con le percosse e la prigione. Sono studenti universitari, che parlano un ottimo inglese e vorrebbero far entrare arte, musica e cultura in questo lembo sigillato di Medio Oriente. Usano prudenza nelle dichiarazioni politiche, preferiscono inneggiare alla fine della divisione fra i palestinesi, Fatah in Cisgiordania e Hamas a Gaza, perché solo una Palestina unita può essere interlocutore di Israele. 
“Conoscevo bene Vittorio” racconta Shahd Abusalama, 19 anni, pittrice e danzatrice: il suo ritratto a carboncino di Vittorio è la scenografia dello spettacolo. “Ero l’unica ragazza palestinese all’obitorio, la notte in cui hanno trovato il corpo. Questo delitto non ha nulla a che fare con la gente di Gaza, non ci rappresenta”. Ed è un adagio che riecheggia ovunque, nella Striscia.
Se i giovani si sentono orfani di chi li aveva incoraggiati ad alzare la voce contro il regime, tutti gli altri aspettano di pagare un prezzo altissimo per questo delitto: stremati dalla povertà, dalla disoccupazione all’86%, dall’attacco israeliano del mese scorso (l’operazione “Estate Rovente”), temono che adesso gli stranieri abbandoneranno Gaza, lasciando il territorio ancora più isolato e impermeabile. Alcune organizzazioni umanitarie straniere hanno già ritirato parte dello staff nell’attesa di capire se questa calma surreale preluda ad altre violenze. E per chi è rimasto la sicurezza, ora, segue procedure più rigide: mai muoversi da soli, nemmeno per fare la spesa; non fermare taxi per strada ma chiamare autisti fidati; chiudersi in casa dopo il tramonto.
I cooperanti internazionali raccontano che se Gaza è sempre stata considerata ad alto rischio, soprattutto dopo la faida del 2007 tra Fatah e Hamas, quando si combatteva per le strade, oggi tra gli scenari di pericolo ce n’è uno nuovo: il rapimento e la morte. Com’è accaduto ad Arrigoni. E sono scioccati dal fatto che uno dei rapitori, sedicenti salafiti, era un pompiere che stazionava accanto ad Abo Ghalion, l’edificio dove vive la maggior parte dei cooperanti stranieri. 



“Avete paura? Tornerete ancora a Gaza?” ci chiede con insistenza Tahseen Astal, giornalista di Al Hayat Al Jadida, il quotidiano dell’Autorità Nazionale Palestinese. E aggiunge: “Noi lo consideriamo un crimine individuale, un doloroso incidente che fa sentire insicuri anche noi gazawi”. C’è chi lo definisce così, un crimine comune, come ne accadono ovunque nel mondo. E chi invece lo attribuisce ai contrasti interni ad Hamas che, oltre ad aver perso da tempo il consenso popolare, non ha più il controllo assoluto sul suo braccio armato, le Brigate Al Qassam: l’ipotesi di un’altra guerra civile, simile a quella sanguinosissima del 2007, aleggia scura.
Per i giovani del “15 marzo”, la morte di “Vik” è una tragedia ancora senza nome. “Stiamo organizzando una grande campagna, la chiameremo Stay Human Campaign (“restiamo umani”, la firma che l’italiano poneva alla fine degli articoli sul suo blog e sul sito web Peacereporter.net, ndr) - dice Samah Ahmeed, trentenne, animatrice sociale e presentatrice del funerale simbolico a Gaza -. Andremo nelle scuole, nelle università e nelle case per spiegare alla gente il lavoro fondamentale degli stranieri qui. Vogliamo dimostrare al mondo che la gioventù palestinese è ancora viva e capace di far sentire la propria voce per cambiare le cose”.
Al Gallery Cafè, siedono in prima fila politici di vari partiti, dalla Jihad Islamica al Fronte democratico per la liberazione della Palestina. Assente Hamas, che ha mandato uno striscione firmato dal ministero dell’Interno, dove Arrigoni diventa “un martire del popolo palestinese”.

(da Avvenire, 26 aprile 2011)

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