NON HO PAURA DI PROVOCARE ALLAH

A Beirut è minacciata di morte e stupro. Perché Joumana Haddad, poetessa e giornalista, ha fondato una rivista unica nel mondo arabo, dove scrive d’amore ed erotismo. E nel suo nuovo libro commette anche un omicidio. Necessario

 foto di Simona Ghizzoni / Contrasto

La grande provocatrice sorprende con voce da adolescente, figura esile ed elegante fasciata in nero e scialle turchese («Il mio colore preferito»), sandali dorati da vertigine, italiano perfetto («L’ho imparato leggendo Cesare Pavese e ascoltando Fiorella Mannoia»).
Di lei, Roberto Saviano ha scritto: «È inimitabile. La sua è una lezione di coraggio per tutti quelli che lottano per travalicare limiti e catene». Perché ci vuole coraggio a nascere donna in una società stretta fra religioni e integralismi, e decidere che quello che vuoi fare nella vita è scrivere poesie erotiche, disquisire con naturalezza di corporeità, amore e sesso, tradurre in arabo il marchese De Sade, diventare la voce - non femminista: lei si definisce, semplicemente, femminile - di un’emancipazione di genere che pure nella modernissima Beirut ancora non arriva.

Joumana Haddad, 40 anni, è giornalista del quotidiano An-Nahar, poetessa, scrittrice. Simbolo, ormai, di donna araba fuori dagli schemi tristi e triti.
Ha guadagnato fama oltre i confini del Libano con il suo trimestrale Jasad, che significa corpo, mescola arte, filosofia e sociologia e a dicembre compirà i suoi due primi, tormentatissimi, anni di vita: l’unica rivista nel mondo arabo a scandagliare il gran tabù dell’erotismo, venduta nelle edicole di Beirut ma censurata negli altri Paesi, dove riesce comunque a raggiungere in busta chiusa migliaia di abbonati.
Incontriamo Joumana a Roma, dove cerca un appartamento («Non lascio Beirut, ma quando vengo qui vorrei sentirmi più a casa»), durante il suo momento tutto italiano: ha curato una mostra alla Mole Vanvitelliana di Ancona, nell’ambito del Festival Adriatico Mediterraneo (prima tappa di un tour che toccherà Berlino e Londra). E' stata ospite dei “Dialoghi di Trani”. Il 22 ottobre parteciperà agli incontri di lettura di Napoli “A voce alta”. All’inizio del 2011 Mondadori pubblicherà il suo nuovo libro, Ho ucciso Sheherazade, già tradotto in cinque lingue, che finalmente ci rivela la sua storia intima di ragazza cresciuta nella Beirut della guerra civile, educata nella religione cristiana maronita, poi divenuta agnostica e devota solo alla libertà d’espressione.
Ora la sua mostra Jasad. The Arab Body lancia due giovani artiste arabe che si concentrano sulla rappresentazione del corpo femminile in una società che lo nasconde e lo nega.

Qual è il linguaggio giusto per affrontare il tabù senza provocare un rifiuto istintivo nelle altre donne del vostro mondo?

Smettere di parlare del corpo femminile come oggetto di desiderio, strumento di tentazione. Dire che il corpo non è carne ma presenza, comportamento, modo di stare in contatto con il mondo. Ho scelto le artiste Sama Alshaibi e Ninar Esber perché diverse e complementari. La prima, palestinese profuga in Iraq e poi negli Stati Uniti, usa fotografia e videoarte per raccontare, attraverso il proprio corpo, la doppia tragedia vissuta, in una direzione politica. Ninar invece, siro-libanese, interpreta il modo in cui la donna araba vive il proprio corpo. Entrambe hanno lo stesso obiettivo di Jasad: non la provocazione gratuita, che fa rumore ma non lascia segni. A noi interessa riflettere su temi importanti che l’integralismo religioso - e parlo di tutte le religioni, non solo dell’Islam - ha trasformato in proibiti.

Continua a ricevere minacce di morte a causa della rivista?

Sì: email di insulti, minacce di stupro, di sfregio con l’acido... Ma ormai Jasad è un fatto, non si cancella. Ho però smesso di usare l’auto, non si sa mai. Mi hanno angustiata di più le proteste dei religiosi, non solo Hezbollah: la chiesa maronita e quella cattolica hanno chiesto la censura ai ministeri dell’Informazione e dell’Interno. I quali, per fortuna, sono retti da due intellettuali sensibili che mi stanno appoggiando. Continuano inoltre ad accusarci di essere la versione araba di Playboy: be’, se uno compra Jasad per eccitarsi, resterà deluso. È una rivista culturale, illustrata con opere d’arte, sulla quale chi scrive deve firmarsi, niente pseudonimi, altrimenti torniamo a nasconderci dietro un velo. Peccato solo che nessuno abbia ancora il coraggio di mettere pubblicità sulle nostre pagine.

Perché uccidere Sheherazade, come recita il titolo del suo ultimo libro? L’eroina delle Mille e una notte non è il simbolo del potere della parola?
No, Sheherazade ha negoziato. Ha detto al re: io ti racconto una storia, tu mi lasci vivere. Ha accettato un compromesso sul suo diritto di esistere: questa non è resistenza né ribellione. Il mio non è un attacco all’uomo, ma ai valori patriarcali di cui molte donne arabe sono paladine più agguerrite degli uomini.

Il Libano però fa storia a sé: le donne vestono come vogliono, con o senza velo. Guidano. Ricorrono alla chirurgia plastica...
Troppa chirurgia plastica! Il Libano conta 18 diverse comunità, si è sempre distinto per apertura nel mondo arabo. Attenti, però: la donna libanese mette la minigonna, balla fino alle 5 del mattino, si sente emancipata e forte, ma quando sposa uno straniero non può dare ai figli la nazionalità libanese. E se divorzia è discriminata perché il diritto di famiglia è regolato dalla religione d’appartenenza: non c’è una legge dello Stato valida per tutti. Il fatto di potersi muovere liberamente è fondamentale, è un diritto, ma in Libano si trasforma in un regalo esplosivo da parte degli uomini: un’illusione di emancipazione, una distrazione. Anche perché la maggior parte delle donne non è indipendente economicamente: padri e mariti pagano per la loro libertà.


Il libro è autobiografico. A chi parla, alle donne occidentali o alle arabe?
È una lettera rivolta a tutti. Al lettore occidentale spiego che dietro la donna araba velata e oppressa ce n’è un’altra libera e forte, che tenta di cambiare le cose: i media occidentali dovrebbero ascoltarla. Certo, rappresenta una minoranza, ma i veri cambiamenti non scaturiscono dalla massa. Alle lettrici arabe, invece, dico di smetterla di essere complici contro se stesse. È attraverso la mia storia che cerco di smontare una serie di cliché, come indicano i titoli dei capitoli: Donna araba che scrive poesie erotiche, Donna araba che non ha paura di provocare Allah...

Perché non lascia Beirut?
Ciò che faccio ha senso solo se fatto da dentro. Io non amo Beirut. I libanesi fuggiti all’estero durante la guerra civile, e che poi sono tornati, mitizzano Beirut, sono incantati dalle sue contraddizioni e dalla sua vitalità. Io no. Io sono stata sempre qui durante la guerra. Mia nonna si è avvelenata, durante il conflitto. Non lascio Beirut.

da Io donna, 25 settembre 2010

Commenti

  1. avevo letto questo articolo su Io donna e mi era piaciuto molto, grazie a te ho visitato il bellissimo sito di Jasadmag.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari