UN OSPITE DAL SAHARA

Ogni anno 500 bambini saharawi arrivano in Italia in vacanza per sfuggire al caldo dei campi profughi in cui vivono. Una giornata di gioco insieme a loro a Reggio Emilia, per scoprire quanto si stupiscano e sorridano davanti all’acqua e a un albero verde.

foto di Marta Sarlo / Contrasto

L'estate diversa di Rosetta Panizza, pensionata senza figli, è spuntata da un uovo di cioccolata regalato a Pasqua. «Dentro c’era la foto di un bambino e un numero di telefono». La sorpresa ha bussato alla sua porta il 7 luglio: Rafiaa, 10 anni, pelle olivastra e occhi di pece come la notte del Sahara. Parla solo arabo ma a gesti si fa capire perfettamente: lava i piatti, adora gli spaghetti al pomodoro anche se fa pasticci arrotolandoli con la forchetta, e si lava in continuazione perché dove vive lei l’acqua è un lusso.
Rosetta, in principio, non riusciva proprio a pronunciarla quella parola: saharawi. Saharawi come il popolo che da oltre trent’anni è profugo del sudovest algerino, in una Repubblica di tende, sabbia e vento che campa di aiuti umanitari. Saharawi come l’altra metà di questa gente, che invece è oppressa nel Sahara Occidentale, il territorio a sud del Marocco conteso fra Rabat e i suoi tradizionali abitanti ai quali l’Onu da troppo tempo promette un referendum per l’indipendenza.

Saharawi come Rafiaa, Aali, Endu, Taufa e altri 500 bambini dagli 8 ai 12 anni che ogni estate lasciano i 50 gradi dell’hammada, il deserto roccioso e grigiastro a sud dell’Algeria, per una vacanza italiana che apra loro nuovi orizzonti.



Nel campo estivo del Comune di Reggio Emilia, dove oggi alcuni piccoli saharawi giocano con un gruppo di bimbi italiani, la staffetta con l’acqua si trasforma subito in una confusione di spruzzi collettivi. «Quest’anno abbiamo ridotto il numero dei bambini accolti da 50 a 40, convinti che la crisi avrebbe scoraggiato le famiglie dall’offrire ospitalità» spiega Cinzia Terzi dell’Associazione Jaima Saharawi di Reggio, che dal ’99 distribuisce i figli del deserto in cinque comuni della provincia e poi, fino al 20 agosto, li manda al mare e in montagna in varie località d’Italia. «Invece c’è stata un’esplosione di richieste».
Far vivere una vacanza diversa a un bambino saharawi, in effetti, non costa nulla, se non vitto e alloggio e, per chi può permetterselo, l’acquisto di un piccolo guardaroba. Al resto pensa l’associazione: voli, visti, spostamenti in pullman, retribuzione per sei accompagnatori-interpreti che traducono dall’hassanya, il loro dialetto. «Non sono ragazzini problematici come quelli di Chernobyl» precisa Cinzia «non vengono dagli orfanotrofi bensì da famiglie numerose: il loro carattere
solare rende la relazione facile e immediata».
Il soggiorno qui non è solo sollievo dal deserto rovente: serve per i controlli medici, dato che le tempeste di sabbia creano problemi di udito, la polvere favorisce i parassiti intestinali, l’alimentazione a base di carboidrati fornita dagli aiuti umanitari causa intolleranza al glutine.
«Quando soffia forte il vento, la tenda vola via» racconta Ragia, 8 anni, viso paffuto ma corpicino sottopeso come gli altri, che a Reggio Emilia ha visto per la prima volta un albero verde. Mentre Aali, 12 anni, non fa che parlare della piscina, la cosa più strana sperimentata in Italia. «Impazzisce per la musica rap, i jeans con le borchie e il cibo cinese» racconta divertita Giovanna Soliani, 34 anni, “mamma” temporanea del ragazzo. «Gli ho chiesto: “Aali, se potessi viaggiare, quale Paese visiteresti?”. E lui: “Il mio, il Sahara Occidentale, dove c’è il pesce più buono del mondo"». A dividere i saharawi profughi in Algeria dal Sahara Occidentale controllato dal Marocco, c’è un muro di 2700 chilometri che corre lungo il deserto, eretto dal ’91, dopo un conflitto armato durato 15 anni.



Anna Garavaldi, 33 anni, ha ospitato quattro diversi bimbi gli anni passati, e quest’estate ha rinunciato a favore di altre famiglie. «Sono stata nei campi profughi, per capire come vivono» dice. «Mi ha impressionato la loro capacità di affrontare condizioni così dure conservando la gioia di vivere. Del resto, un popolo che ha costruito uno Stato nel nulla del deserto...».
Dopo il pranzo al campo estivo, si riprende a giocare. Barbara e Luna, 9 e 11 anni, italiane, raccontano che Aali e Labat hanno insegnato loro giochi a carte che non conoscevano. Barbara riesce persino a spiegare a grandi linee la complicatissima storia del popolo saharawi, e conclude: «Pensa, nel loro deserto ci sono 200 gradi, e non hanno nemmeno aria condizionata e ventilatori!».


da Io donna, 7 agosto 2010

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