IL BUONO DEL CACAO

foto di Michele Borzoni / Terraproject


Domani, 17 ottobre, parte la sesta edizione di “Io faccio la spesa giusta”, la settimana per il commercio equo e solidale organizzata da Fairtrade Italia. Ma come funziona questo genere di scambio fra Nord e Sud del mondo? E soprattutto, serve davvero ai contadini dei Paesi poveri? Un racconto dal Costa Rica.

Encarnación Pereira, per tutti Ción, è detto “il dentimetro” perché, con un’annusata e un colpo di denti (d’oro), inquadra la qualità del cacao che sta comprando in riva al fiume Sixaola sotto un sole che squaglia.
Gli indigeni bribri scendono dalle rapide limpide, trasportando in canoa sacchi chiari e odorosi. Ción li apre uno per uno. Ne esamina qualche chicco. Quelli umidi li pagherà meno, diventeranno polvere di cacao da vendere qui. Gli altri, di un viola intenso e già con il gusto del cioccolato amaro, viaggeranno in Europa per le rotte del commercio equo e solidale. In Olanda o in Germania si trasformeranno in pasta di cacao. In Svizzera un artigiano ne farà tavolette, le troveremo nei supermercati italiani sotto il marchio Alce Nero.



Siamo in Costa Rica nella regione di Talamanca, sul versante atlantico, quasi al confine con Panama, tra foreste esuberanti e aurore da cartolina annunciate da polifonie di galli e scimmie urlatrici. In questo piccolo paradiso piovoso ha sede la cooperativa Appta per cui lavora Ción, unica nel Paese ad aver dato al cacao il marchio equo e solidale. Cacao di ottima qualità, biologico, coltivato nella venerazione dell’ecosistema perché Appta, dal 1987, insegna la sapienza agricola degli indios a tutti i 1.200 soci, che piazzano in Europa e negli Usa 160 tonnellate l’anno di cacao, oltre a banane e altri frutti.
I bribri e i cabecár sanno dosare sole e ombra nelle fincas, le fattorie dove mescolano cacao e altri alberi per proteggere il terreno e la biodiversità. Per loro è bestemmia usare additivi chimici: il cacao è sacro. Ferirlo sarebbe come colpire se stessi.


Abbiamo visitato questi campesinos, in gran parte donne, per capire una cosa: acquistando cioccolato o caffè a marchio FairTrade, cambiamo davvero la vita dei micro-produttori dei Paesi in via di sviluppo?
È stato per garantire loro un prezzo ragionevole, al riparo da speculazioni e dai capricci delle borse, che il commercio equo ha visto la luce quarant’anni fa in Olanda. Oggi solo gli importatori europei sono oltre 200 (leader italiano è Ctm-Altromercato), e nel ’97 è nata Flo (FairTrade Labelling Organization), ente non profit internazionale che ispeziona le cooperative, dà il bollino etico secondo criteri anche sociali e ambientali, e spinge i prodotti giusti nella grande distribuzione.


Nel 2006 il cacao a marchio Flo ha visto l’impennata più significativa: 10.952 tonnellate metriche vendute, il triplo rispetto al 2004. Il settore cresce del 40 per cento l’anno, Flo coinvolge un milione e mezzo di contadini in 57 Paesi, ma il suo fatturato globale (1,6 miliardi di euro nel 2006) è pari a quello della sola Nestlé Italia, per dare le proporzioni. Una nicchia, vivace ma dibattuta: l’Economist scriveva che il fair trade vizia il mercato, impigrisce i contadini e non ne migliora l’esistenza.
Ne parliamo con Aida Moreno Maiorca, indigena bribri con sei figli e svariati nipoti, che abita in una palafitta nella riserva di Yorkin mimetizzata nella foresta pluviale. «Non siamo diventati ricchi con i nostri tre ettari di cacao e banani che fruttano sui 2.300 dollari l’anno» racconta «però abbiamo comprato una barca, vestiti, e messo via qualcosa per le malattie e per il nostro sogno: aprire qui un negozio. Il più vicino sta a due ore di navigazione».
Poco lontano, Candida Salasár Vuitrago ci guida per i saliscendi della sua fattoria a precipizio sul fiume Sixaola, ricordando con stizza l’epoca del cinese che a Talamanca monopolizzava il cacao a prezzi da fame. Ora che si è liberata del coyote (così da queste parti si chiamano gli intermediari), i 180 dollari al mese che guadagna la rassicurano sul futuro dei figli: «La minore vuole continuare gli studi » sorride offrendo succo di guava e indicando l’unico capriccio che si è concessa, il televisore.


Per Juanita Baltodano Vilchez, 48 anni e da nove presidente di Appta, non è solo questione di denaro. Per lei, che sfreccia in moto abbigliata da manager rurale (stivali di gomma sempre infangati e ventiquattrore a tracolla), è il suo ruolo nella cooperativa a fare la differenza: una rivincita sulla sua storia. Abbandonata dal padre alla nascita e lavoratrice bambina, si sposa a 17 anni, a 24 ha già cinque figli. Poi il padre ricompare, le regala 25 ettari lungo la frontiera panamense, ma il marito invidioso li vende di nascosto a un prezzo ridicolo. Juanita ne ricompra otto e quando si ammala di tumore si decide a piantare quell’uomo ottuso, riprende gli studi e guarisce.
Oggi è una pr che intesse relazioni all’estero: in Italia ha spinto anche Slow Food al cacao buono e giusto dei bribri.


Una ricerca della Earth University del Costa Rica ha appurato che, mediamente, un socio Appta vende un terzo dei suoi prodotti ricavandone 3.500 dollari l’anno. Cifra modesta, paragonata ai 13.500 dollari di Pil pro-capite del Paese, ma distante dalla soglia di povertà (365 dollari l’anno) sotto la quale vive un quinto degli abitanti. Merito del “prezzo giusto”, il minimo garantito ai produttori certificati: 1.750 dollari la tonnellata, per il cacao. Se la borsa di New York scende (nel 2000 il cacao toccò il baratro dei 714 dollari), ai contadini equi non riguarda. Se sale, sale anche il prezzo giusto. Con il suo cacao biologico e di qualità, Appta strappa 3.300 dollari a tonnellata: 1.900 vanno al produttore e il resto si investe in formazione, tecniche agricole più avanzate, ricerca di sodalizi commerciali.
Nel prezzo è compreso un “premio fair trade” di 150 dollari la tonnellata per opere utili alla comunità: Appta ci ha costruito una scuola nella riserva bribri. La certificazione costa però salata, da 1.137 a 2.700 euro, più una quota annuale per le ispezioni. «Ma il commercio equo non è carità: è una strategia di business» precisa dal suo ufficio nella capitale Uriel Barrantes di Flo-Cert, ramo operativo di Flo. «Pagando, ci si impegna a uscire dall’agricoltura di sussistenza per innescare sviluppo nella comunità».


«I contadini devono guardare al fair trade come a un punto di partenza, non d’arrivo» spiega l’economista Hugo Valdes, esule cileno in Germania dove partecipò alla nascita di Flo. Ora coordina in Costa Rica Sin Fronteras, alleanza di produttori e importatori (c’è anche il consorzio italiano Conapi) che mira a sviluppare nuovi mercati: oggi solo un quinto dei prodotti giusti ha spazio nel circuito equo e solidale. «Il prezzo non è che una garanzia di stabilità per andare oltre: diversificare i prodotti, creare un mercato locale, trasformare la materia prima in loco. Solo allora i cambiamenti saranno evidenti».
Qualcuno già ci prova: Leonel Castro, trent’anni, è socio della cooperativa gemella di Appta a Panama. L’anno scorso ha guadagnato 4.000 dollari dal cacao. Progetta di farne polvere da vendere ai negozi. E vende crema di banane ai vicini, sperimenta innesti di piante. «Qui i giovani vogliono un lavoro d’ufficio, pensano che la terra non dia futuro» dice. «Io dimostrerò il contrario».

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