A TEATRO CON COLETTE

«Il dottor Mukwege? Sì, è bravissimo, ma io ho cominciato molto prima di lui...». Lo dice con un sorriso ampio, Colette, parlando del più famoso medico congolese che cura e opera le vittime degli stupri di massa a Bukavu, Sud Kivu, terra incantevole solcata da guerriglie croniche.
Anche Colette Kitoga è medico. E donna. Parla perfettamente italiano: da adolescente ha avuto la possibilità di lasciare il Congo per studiare in Italia, a Roma. Ma dopo l’università ha voluto tornare a casa sua, mettere in piedi centri sanitari per assistere le vittime di guerra, le donne lacerate, i bambini traumatizzati, quelli che hanno dovuto assaltare villaggi e massacrare le loro stesse famiglie.
Ora Colette gestisce tre centri: a Bukavu (il capoluogo del Sud Kivu), a Uvira (più sotto, al confine con il Burundi), a Kamituga (epicentro delle miniere d’oro e di coltan, le radici amare della guerra infinita sulle rive dei Grandi Laghi).
Peccato non aver saputo dell’esistenza di Colette Kitoga, quando sono stata nell’est del Congo qualche mese fa. La incontro a Roma, dove partecipa a un convegno dell’Unicef sui bambini in guerra. Chiacchieriamo a lungo. E’ furiosa...
... perché l’ambasciata italiana a Kinshasa le ha concesso un visto di appena cinque giorni, sarà l’aria che tira con immigrati e clandestini... Colette ha anche bisogno di farsi visitare da un cardiologo, a Roma, “vedremo” dice. Le chiedo della situazione a Bukavu, delle sue pazienti. E del generale Nkunda, era uno dei cattivi globali per antonomasia e ora scompare nel nulla, così. «Quello?» ride il medico congolese, piccola, tonda, un’aria materna e frizzante assolutamente irresistibile. «Quello non ha fatto un solo giorno di galera. Lo sappiamo tutti che se ne sta tranquillo a Kigali, in Rwanda, in una bella casa, con la moglie. Il presidente del Congo può chiedere la sua estradizione quanto vuole: Nkunda è nato in Rwanda, è cittadino rwandese: non lo estraderanno mai».

Incontro Colette anche a Milano. Le hanno prolungato il visto, intercessioni dall’alto di chi le vuol bene. Così ieri sera ha potuto essere attrice per un’ora dentro uno spettacolo che parla di stupri. Lei racconta la sua storia di medico congolese, e insieme la storia recente del Congo. Parla di una sua paziente, Cécile. Alta, bella. Che le dorme accanto, imbottita di sedativi per i 50 punti di sutura che il medico ha dovuto darle dopo lo stupro di massa da parte di soldati sporchi, puzzolenti e ubriachi.

Colette legge, a volte inciampa. Sembra stanca. Ma ha una presenza scenica speciale. Quella della verità, forse. E sono soprattutto le pause, i non detti, a dare corpo al racconto: quell’incapacità - o impossibilità strutturale? - di razionalizzare il male, di dargli una forma con le parole, e allora si finisce per girargli attorno con descrizioni, metafore, ricordi. Ma il male resta lì, infilato nel vuoto che corre tra una parola e l’altra. E non basta stare in ascolto. Ci vuole uno sforzo. Decidere di conoscerlo.

«Ci vediamo a Bukavu?».
«Karibu» dice Colette. Benvenuta.

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