IMPRESSIONI IRAN



L'Iran che ho visitato tempo fa non conosceva ancora gli scontri di piazza di questi giorni. L'opposizione finalmente urlata al regime teocratico e alle follie di Ahmadinejad.
Brevi schizzi ad acquerello tra viaggio e reportage.


Nelle sue sfumature di beige e ocra è insolitamente deserta la città vecchia di Yazd, affascinante tappa tra i rilievi dell’Iran centrale, protetta dall’Unesco per le antiche costruzioni in fango e i suoi badgir, le “torri del vento” studiate per catturare ogni alito d’aria e metterlo in circolo nelle estati torride. Militari presidiano ogni vicolo.
È vietato andarsene in giro con macchine fotografiche e cellulari. È tutto chiuso, tranne qualche odorosa panetteria e le pasticcerie del viale Imam Khomeini, tripudi di dolcetti al pistacchio e pashmak, lo zucchero filato tipico di queste parti. Da mille manifesti incorniciati da lucine verdi e blu ci sorride l’ayatollah Khamenei, che visita Yazd per la prima volta arringando i cittadini da una nicchia dell’incredibile edificio sacro Amir Chakhmaq. La piazza straborda.
Dalla televisione di una sala da tè ascoltiamo la guida suprema sciita tuonare contro i giornalisti locali critici verso Ahmadinejad; dichiarare che sul nucleare «non faremo passi indietro»; ammonire che «la nostra nazione amante della pace umilierà qualsiasi aggressore».
Infine ammettere che, pur non essendo «il momento di normalizzare i nostri rapporti con gli Stati Uniti», la possibilità non è esclusa per il futuro.
La folla piega le transenne, applaude incontenibile, agita bandierine. «Sono tutti pagati per presenziare e far credere che il governo abbia ancora il consenso della gente» commenta tra i denti il gestore della sala da tè. E un giovane cliente si dà all’umorismo british: «Certo che amiamo Ahmadinejad e Khamenei, ma non quanto teniamo ai nostri animali domestici».

Venire in Iran da turista è stata una scelta d’istinto, anche se per chi mi chiedeva «ma perché proprio l’Iran? Erano finiti i last-minute alle Maldive?», qualche buona ragione l’ho saputa esplicitare. Qui sorgono moschee tra le più spettacolari e preziose del mondo islamico. Esfahan, capitale della Persia nel 1600 sotto lo scià illuminato Abbas I, è detta “la metà del mondo”: visitarla, insomma, significherebbe aver già visto metà di ciò che sulla terra valga una puntata. Il fumetto Persepolis dell’iraniana Marjane Satrapi è tra i migliori libri che abbia letto negli ultimi anni. L’omonimo sito archeologico compete con l’Acropoli di Atene. Il visto turistico, se si soggiorna nel paese solo per una settimana, si ottiene all’arrivo con una procedura veloce. E poi, d’accordo, c’è la curiosità di assaggiare l’atmosfera nello Stato più canaglia del momento.
Durante il mio breve soggiorno, in Iran vanno in scena 16 condanne a morte. A cinque malviventi vengono amputati un piede e una mano, come prevede la legge islamica per i ladri recidivi. A Babol, cittadina a nord-est di Teheran, finiscono in carcere 53 persone sorprese mentre danno una festa privata con musica occidentale e alcolici. Le due femministe Mariam Hosseinkhah e Jelveh Javahani pagano una cauzione equivalente a quattromila euro ciascuna per uscire di galera, dove stanno da più di un mese per aver pubblicato articoli inneggianti ai diritti delle donne. E (unica nota di colore) il cantante inglese Morrissey, che da sempre gioca sulla sua ambigua sessualità, comincia a trattare con il ministero della Cultura iraniano per tenere un concerto a Teheran in giugno. Ma tutto questo lo apprendo al ritorno.
Viaggiando per l’Iran centrale - da Shiraz a Yazd, da Esfahan a Kashan, da Qom a Teheran - la vita sembra scorrere placida sotto le grandi facce di Khomeini e Khamenei appese ovunque. Un ritmo indolente eppure caotico, come se la “guerra psicologica” in corso con l’Occidente fosse un affare secondario rispetto al micidiale traffico di Teheran e alla bufera di neve che di recente ha paralizzato la capitale mettendo in crisi i consumi di gas. Il turismo, già crollato dopo l’11 settembre, ha ricevuto il colpo di grazia dai proclami di Ahmadinejad.
Nel paesaggio quasi europeo dei ponti sul fiume Zayandeh a Esfahan e nell’immensa piazza dell’Imam, s’incontra qualche italiano, francese, giapponese e un’inattesa comitiva di americani dal New Hampshire che elogiano la sorprendente cortesia dei persiani e la bellezza delle moschee dalle grandi cupole e dai portali decorati con singolari stalattiti a nido d’ape.
È vero, gli iraniani sembrano esercitare la naturale accoglienza di chi vorrebbe uscire da un isolamento tutto sommato recente, rispetto a una storia millenaria segnata da incroci di civiltà. Per strada, agli stranieri elargiscono datteri spruzzati di cocco augurando happy new year anche se il nostro Capodanno è passato da un pezzo e il loro, il Nowruz, cade intorno al 21 marzo. Offrono passaggi in auto e, se vuoi pagarli, devi insistere tre volte (è il ta’arof, imprescindibile galateo del triplo rifiuto prima di un sì).
Nello sterminato mausoleo dell’ayatollah Khomeini, appena fuori Teheran, intere famiglie pregano e bivaccano sui tappeti accanto alla gabbia di vetro che contiene la bara del padre della rivoluzione e quella del figlio Sayed Ahmad: un uomo insiste per raccontarmi la vita di Khomeini e inevitabilmente si fa buio.

«Il nostro presidente è un pazzo, ci porterà alla rovina» sbotta Ahmed, 22 anni, che grazie a un sussidio statale ha aperto una bottega di tappeti nel Bazar-e Bozorg di Esfahan. Dice che molti giovani sono autodidatti in inglese e sognano di emigrare, «magari a Teher-Angeles». Dove? «A Los Angeles. Là vivono quasi un milione di iraniani».
Racconta delle sere buie degli spontanei coprifuoco, quando loro allestiscono sfrenati party casalinghi («Qui a Esfahan i controlli sono rarissimi») con il benestare dei genitori, che preferiscono vedere i figli illegalmente ubriachi che ingrigiti dal conformismo. È il ritratto tracciato dalla scrittrice Azadeh Moaveni nel suo Lipstick Jihad (Editrice Pisani), la generazione che assaporava le promesse progressiste dell’era Khatami e ora non può che arginare il redivivo oscurantismo ripiegandosi nel privato.
Le ragazze rivelano molto di sé con l’inclinazione dell’hijab e del russarì, il foulard imposto anche a noi straniere fin dall’atterraggio a Teheran (ce lo ricorda un annuncio della hostess): autentica tortura negli interni iper-riscaldati. E da quante ciocche di capelli le donne lasciano scoperte, s’indovina il loro grado d’insofferenza.
A Shiraz, città del sud, una delle mete preferite per le passeggiate al tramonto è il giardino con la tomba del poeta Hafez, il Dante iraniano: qui è un susseguirsi di labbra e occhi truccati, unghie laccate e persino jeans infilati negli stivali, esplicitamente vietati (insieme ai cappelli) da una recente legge. Mentre su uno dei romantici ponti di Esfahan passa svelta una giovane coppia tenendosi per mano. È tardi. Nessuno li vede.
I fantasmi neri in chador, con quella maestria nel tenerseli chiusi con le mani o con i denti (il chador è una tenda, letteralmente, e non ha cerniere né bottoni), dominano solo nella città santa di Qom, roccaforte del consenso per il clero sciita. Per accedere all’Hazrat-e Masumeh, il santuario dov’è sepolta la madre del Mahdi (il dodicesimo Imam “in occultamento”: una sorta di Messia, per gli sciiti), il chador tocca anche a noi. Ci consegnano lenzuola di brutti colori, come se i nostri giubbotti lunghi, scuri e informi e le sciarpe in testa non annichilissero già le nostre sembianze femminili.
È strano, ma solo adesso avverto di stare in un altrove assoluto.

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