RAGAZZE PER FORZA



foto di Simona Ghizzoni / Contrasto
Una digressione su quanto sia diventato complicato e rognoso avere trent'anni. Un articolo che mi è stato ispirato, qualche tempo fa, da un bellissimo servizio fotografico di Simona Ghizzoni. Che ritraeva una serie di donne trentenni tra i loro oggetti- affetti, rivelando le loro aspirazioni più profonde. E mostrandone, insieme, tutta la precarietà esistenziale.

C’è Federica che a trent’anni ama giocare e quando le chiedo «che vuoi fare nella vita?» risponde: «Vuoi il piano A o il piano B?» e poi confessa che si sposerà solo a Las Vegas con una cerimonia officiata da un finto Elvis che canti One for the money, two for the show. C’è Valentina che per ora non vuole figli e mal sopporta le pressioni di sua madre: «Per lei, se non fai figli non sei una donna».


C’è Valeria con la sua strategia di sopravvivenza ai trent’anni: «Tengo aperte varie porte, agisco su più fronti, non escludo nulla, nemmeno di trasferirmi in Brasile. Prima o poi la incontrerò, la strada della stabilità e della realizzazione personale». E c’è Elisa, semplicemente arrabbiata: «A trent’anni non ho un’autonomia economica né psicologica, non posso permettermi una casa né una macchina. Oggi o fai la madre o fai la donna in carriera: l’unica terza via è fare la precaria».


La fotografa (trentenne) Simona Ghizzoni le ha ritratte sullo sfondo delle loro incertezze, queste nuove trentenni in cerca di un equilibrio tra i desideri e le circostanze della vita, single o conviventi, rigorosamente senza figli. E sono proprio così, anzi siamo così – chi scrive è a metà fra i 30 e i 40 –, noi che da piccole ci immaginavamo a trent’anni già accasate con figli e un lavoro stabile e invece ci ritroviamo ogni sera a tentare il bilancio di un’esistenza ancora da inventare. Abbiamo studiato tanto, molto più delle nostre madri, collezionando laurea, master, specializzazione, raffiche di stage e inevitabili impieghi atipici, magari prestigiosi – contratti in un giornale, in una grande azienda, in un’università – ma pur sempre spot.
Siamo brave, titolate, creative, eppure la macchina economica non ha bisogno di noi: le aziende sono sature di personale, le giovani istruite e rampanti sono talmente tante da annullare una sana concorrenza per meriti, e a noi non resta che metterci in coda continuando a credere nelle nostre ambizioni di ragazze, quelle per cui abbiamo studiato e – nonostante l’ancor giovane età, suvvia – già lavorato parecchio.
Rispetto agli uomini abbiamo un indiscutibile svantaggio: l’orologio biologico. A questa età le nostre madri erano già madri. Noi siamo ancora qui a preoccuparci di quanto la presenza di un bambino – che pure desideriamo, anzi ne vorremmo addirittura due, come evidenzia una ricerca di Alessandro Rosina, demografo all’Università Cattolica di Milano – intralcerà i nostri sogni professionali, oltre a chiederci che ne sarà dei nostri già traballanti conti quotidiani.
E quando siamo appena più sicure di noi stesse e del nostro difficile eppure a volte eccitante status di non-più-adolescenti e non-ancora-proprio-adulte, ci basta andare a fare la spesa per sentirci, di nuovo, né carne né pesce: prima un commesso dice all’altro, indicandoci, «c’è da servire la ragazza»; poi nel negozio successivo ci chiedono «desidera, signora?».


«Preferisco pensare ai trent’anni come a uno stato mentale, più che anagrafico» dice Federica Frezza, che ha appena pubblicato il suo primo romanzo ma per vivere fa tutt’altro, l’insegnante di inglese. «L’unica differenza con i vent’anni è che adesso è necessario avere un piano, un obiettivo preciso, e insieme la consapevolezza che puoi anche fallire. E qui deve scattare un piano di riserva: nel mio caso, continuare a insegnare inglese se non riuscirò a fare la scrittrice. Non amo i discorsi sulla precarietà, preferisco viverla come un pungolo a provare esperienze diverse. E poi siamo sicuri che a quarant’anni le cose cambieranno? Basta davvero un contratto a tempo indeterminato per placare ansie e crisi d’identità?».
«Io soffro di bilancio compulsivo: ogni giorno è buono per fare il punto della mia situazione» interviene Francesca Pizzo, che si mantiene con un impiego part-time da indossatrice («e con l’aiuto dei miei» ammette) e intanto tenta la carriera artistica per cui ha frequentato l’Accademia di belle arti. «Un figlio? Mi piacerebbe, ma rallenterebbe tutto, e invece questo è il momento di tener duro nei miei obiettivi».

Gli esperti cominciano ora a occuparsi di questa nostra generazione galleggiante sulla precarietà, conseguenza esistenziale di un precariato di fatto. La sociologa francese Bernadette Bawin-Legros, nel suo Generazione smarrita (ed. Nuovi mondi media), descrive i trent’anni come l’età del dubbio e del disincanto, mentre in passato era un preciso spartiacque tra la giovinezza appassionata e fantasiosa e la testa messa definitivamente a posto. «Ma anche oggi i trent’anni segnano un confine» sostiene Julia von Stietencron, di origini tedesche, che dopo tanti lavori brevi nella moda si è messa in proprio come stilista, tra mille difficoltà. «A vent’anni vivi nel lusso della scelta e senti di poter spaccare il mondo in quattro. A trenta arriva un bagno di realtà. Ho passato momenti di forte disillusione, ma una volta reinnescata la marcia sono ripartita: il segreto è riuscire a svoltare quell’angolo insidioso tra i venti e i trenta».

La sociologa Marina Piazza sottolinea un’altra tendenza che aveva notato qualche anno fa scrivendo il libro Le trentenni (Mondadori), e che oggi trova consolidata: «Le giovani donne subiscono troppe pressioni sociali. Si pretende che siano brave figlie, brave madri, perfette donne in carriera e persino abili amanti. Però poi la società non le aiuta: le madri non hanno tutele, il lavoro è parcellizzato, le lavoratrici atipiche sono proprio quelle più istruite e qualificate. Il grande paradosso delle trentenni di oggi è che, a differenza delle loro madri, la costruzione dell’identità passa dalla realizzazione familiare e professionale insieme. Peccato che il desiderio di affermarsi anche nella carriera arrivi proprio quando l’accesso al mercato, per le donne, è diventato una via crucis».
«Lavoro come grafica informatica da due anni, con contratti a progetto, e ora mi chiedono di aprire la partita Iva» sbuffa Elisa Gattafoni. «Non so quanto reggerò all’angoscia, anche perché nel frattempo devo parare gli attacchi dei miei genitori che chiedono in continuazione: “Ce l’hai il fidanzato? Quando pensi a una famiglia?”. Su quali presupposti, dico io?».
«Per sentirmi più adulta ho tagliato i capelli» sdrammatizza Valentina Cencetti, costumista per il cinema e barista per arrotondare «visto che le produzioni mi pagano quando vogliono». Lei lo aveva, un contratto a tempo indeterminato, ma come commessa, «nulla a che vedere con i miei studi. Sono scappata, ho preferito concedermi altro tempo per inseguire i miei sogni».
Quando se lo possono minimamente permettere, hanno più coraggio le moderne trentenni. Come osserva Marina Piazza: «Sono più consapevoli del loro valore, più assertive, e non vogliono fare rinunce. Si adattano a lavori poco qualificanti pur di perseguire, parallelamente, la loro meta».
E che sorpresa sentire da queste coetanee un concetto d’altri tempi: «Gli ostacoli pratici si superano con la stabilità interiore» dice Valeria De Luca, laureata in semiologia e aspirante giornalista «e la stabilità non la trovi nel lavoro. Sta negli affetti, e nella tua capacità di coltivarli».

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