UN RAGAZZO MUSULMANO AD AUSCHWITZ


Era uno dei viaggi di Veltroni, allora sindaco di Roma, ad Auschwitz con centinaia di studenti. Quella volta c'erano anche quattro ragazzi musulmani. E c'ero anch'io. Che oggi sono sconvolta dalla brutalità di Israele sulla gente di Gaza, schiacciata dalla sproporzione della risposta ai razzi qassam di Hamas, atterrita di fronte alle immagini (assenti sui grandi media) dei bambini palestinesi uccisi. Ma sono convinta che la Shoah sia un'altra cosa, un altro orrore. Non intendo minore o maggiore, solo diverso: l'orrore non ha dimensione, non è commensurabile. E penso sia vile chiamare in causa la Shoah oggi. Da una parte e dall'altra

Scansiamo la folla. Entriamo ad Auschwitz-Birkenau camminando sui binari, a passi lunghi e innaturali per poggiare i piedi sulle traversine evitando l’erba fradicia. È una mattina di pioggia, senza luce. Hamza si ripara con un cappello mimetico e chiede: «Ma perché gli ebrei non si sono ribellati alle SS? Erano tanti…». Shlomo Venezia, sopravvissuto al lager ed energico nei suoi 80 e più anni, racconta che una rivolta c’è stata: nell’ottobre del ’44 i Sonderkommando di cui lui faceva parte, prigionieri costretti a districare i cadaveri nelle camere e gas per gettarli nei forni a ritmo di fabbrica, fecero saltare il crematorio IV. Furono tutti sterminati. Hamza si stringe nelle spalle, mani in tasca e occhi a terra. Cambia quesito: «Perché la gente che vedeva gli ebrei arrestati o ammassati nei treni non faceva niente? Com’è possibile questa indifferenza?».



È alto come un uomo, Hamza, ma per i suoi quindici anni l’ingiustizia resta inconcepibile. Non si spiega nemmeno perché tutti, qui, siano incuriositi da lui, dalla sorella Chaimaa, dalla cugina Mariam e soprattutto da Imane, che incornicia il viso di bambola con un hijab rosa: quattro musulmani dentro la macchina per lo sterminio degli ebrei, in prima fila nel deporre fiori sulla lapide in memoria del milione e oltre di morti, mentre altri intonano l’Ani Maamin, il canto ebraico della speranza.
Dopo le continue negazioni della Shoah da parte del presidente iraniano e il fastidio di alcuni imam d’Italia per le celebrazioni della Giornata della memoria, il 27 gennaio, fa effetto percorrere la simmetria di baracche rosse e filo spinato accanto a questi adolescenti marocchini immigrati da piccoli, musulmani osservanti, venuti qui «per vedere se è veramente vero» ma che poi non celano occhi turbati. Si confondono tra i 230 studenti romani portati anche quest’anno in Polonia da Walter Veltroni affinché respirino la storia studiata sui libri, mischiata alle testimonianze di cinque superstiti di Auschwitz.
Ci sono anche due sedicenni rom (i nazisti uccisero 500 mila zingari), ragazzi ebrei e studenti della Scuola germanica che non si rivolgono ai sopravvissuti «perché si sente troppo il mio accento tedesco» confessa Jenny di Amburgo dopo aver sentito da Andra Bucci, deportata a sei anni con la sorella Tatiana, che ancora la inquieta la lingua dei suoi aguzzini.
Ma l’attenzione è catalizzata da loro, i marocchini nati a Khorigba e residenti a Cinquina, periferia nord di Roma, con padri commercianti e smaccata cadenza romanesca. L’hijab di Imane calamita occhiate e quesiti: è timida, se potesse si renderebbe invisibile. A tutti risponde: «È stata una mia libera scelta quando sono diventata signorina. Il velo protegge la donna e la fa rispettare».
Le tre ragazze frequentano un istituto di scienze sociali, Hamza una scuola tecnica. In casa parlano dialetto arabo, osservano preghiere e Ramadan, e se Hamza si sente italiano «al mille per mille» e strappa a Veltroni una promessa d’incontro con Totti, Imane dice che la sua casa è in Marocco, dove torna ogni estate. Da grande vuole fare la giornalista «perché voi italiani non ci conoscete bene. Sui giornali si leggono solo giudizi estremi, da una parte e dall’altra». E Chaimaa - cintura borchiata, zainetto con la A di anarchia ed sms selvaggio - butta lì un dilemma d’identità: «Mi sento italiana in Marocco e marocchina in Italia».
È l’unica ad aver letto libri sulla persecuzione degli ebrei, testi per ragazzi di Joffo e Orlev. Gli altri tre conoscono la Shoah dai film Schindler’s List e La vita è bella. Troppo poco perché sappiano di trovarsi «ai confini dello spirito», come scriveva Primo Levi: l’umida giornata ad Auschwitz li strema, li confonde.
Ascoltano Piero Terracina e Sami Modiano, loro coetanei quando si conobbero in una baracca di Birkenau. Stampano in testa le masse di scarpe, occhiali, vestiti e capelli nel museo oltre l’Arbeit macht frei: «In ogni oggetto immaginavo la faccia del prigioniero cui era appartenuto» tentenna Mariam.
Hamza è sconvolto da un ricordo di Shlomo Venezia: una neonata miracolosamente uscita viva dalla camera a gas, subito abbattuta da un SS con un colpo di pistola alla nuca. Orrori che per loro si sovrappongono al sangue di oggi visto su Aljazeera e Alarabiya: le bombe israeliane sul Libano, i raid su Gaza, la cronaca che urla sopra la storia.
Comincia Hamza: «In tv si vedono bambini strappati ai genitori e uccisi. Proprio gli ebrei che hanno sofferto con la Shoah adesso fanno lo stesso a noi in Palestina». Credi sia proprio la stessa cosa, Hamza? «Uguale no, ma se si continua così la tragedia sarà simile. Però quando torno voglio raccontare a mio padre ciò che ho visto qui perché lui non ci crede tanto. Lui pensa all’oggi, alla Palestina».
E i kamikaze? I terroristi? «I kamikaze palestinesi difendono i loro cari, invece quelli che si fanno esplodere altrove non sono veri musulmani» risponde Imane, sicura. «L’Islam vieta di uccidere e di attaccare chi non sia in grado di difendersi». «Ci infastidisce lo stereotipo musulmano uguale terrorista» riprende Hamza, ricordando gli infiniti controlli all’aeroporto di Cracovia sui loro passaporti marocchini. «È come dire che gli italiani sono tutti mafiosi o che gli ebrei sono tutti assassini dei palestinesi. Non è così. Sono i capi a farsi la guerra, noi siamo gente comune. E quella treccia bianca in primo piano fra le tonnellate di capelli rasati ai prigionieri di Auschwitz, io non la dimentico».
Non l’hanno fatto apposta, a cena, a metterli al tavolo della comunità ebraica di Roma accanto a Sara e Roberta, nipoti di deportati ad Auschwitz e Treblinka: insieme per caso, uniti dalla cucina senza maiale. «Non sapevo avessimo tanto in comune, gli stessi problemi quando si esce a cena con gli amici» ammette Imane. «Pensavano fossi sposata perché, ho scoperto, le donne ebree indossano il velo dopo il matrimonio».
«La prima sera mi hanno chiesto: “Ma queste sono ebree o israeliane?”» racconta Omar Camiletti della moschea romana di Monte Antenna, già coinvolto nel dialogo interreligioso, che ha accompagnato i ragazzi in Polonia. «Io ne ho approfittato per dire che non devono mai generalizzare: prima si parla con le persone. E il mangiare insieme è il migliore inizio per conoscersi. Non è l’idillio, la melassa: le bombe sul Libano le abbiamo viste tutti, ma perché demonizzare i singoli?». Il criterio di Hamza è più pratico, da quindicenne qualsiasi: «Le ragazze ebree? So’ pure carine».

L'articolo, come TUTTI i contenuti di questo sito, è di esclusiva proprietà dell'autrice. Ne è quindi vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo, senza chiedere preventivamente l'autorizzazione a Emanuela Zuccalà. E' invece benvenuta la citazione su altri siti e social network, purché contenga il link a questo sito.

Commenti

Post più popolari