SMILE, YOU'RE IN GAZA




foto Riccardo Venturi / Contrasto

Era qualche mese fa. Un piccolo reportage che ho scritto per l'organizzazione umanitaria Coopi, che mi ha portata in Cisgiordania e soprattutto a Gaza. Quando c'era la prima crisi della benzina, e le auto andavano con l'olio fritto. Quando, la mattina dopo il mio arrivo, un giovane ha imbottito di tritolo un camioncino e si è schiantato contro la barriera di Erez, senza uccidere nessuno se non se stesso. Quando la guerra era ancora a bassa tensione.

Stamattina anche gli operatori della Croce Rossa e dell’Onu sono costretti ad attraversare a piedi il confine di Erez, percorrendo sotto il sole la terra di nessuno costeggiata da macerie, che a un certo punto s’infila nel tunnel sventrato: qualche giorno fa un uomo si è lanciato contro queste alte mura a bordo di un camion imbottito di esplosivo. È morto soltanto lui. Era troppo presto, l’alba. Non c'era nessuno. Ma un danno, agli israeliani, è riuscito a procurarlo: ha mandato in tilt il sistema di telecamere di Erez e così eccoci qua, io e un gruppo di operatori umanitari con gli zaini preparati in fretta e furia.
Ci hanno detto che il confine resterà aperto solo un paio d’ore, e dopo giorni di incertezza su quando e se saremmo riusciti ad andarcene, è il caso di approfittarne.
Il personale della Croce Rossa e dell’Onu in genere se ne va da qui in auto, risparmiandosi l’interminabile, logorante controllo bagagli e il grande scanner che ti radiografa dentro una bolla di vetro. Ma oggi la trafila standard vale anche per loro. E sbuffano, più impazienti di noi. Perché uscire dalla prigione Gaza per rientrare in Israele è un’operazione lunga e macchinosa (per me, che ho un visto iraniano sul passaporto, è durata ore) che alla fine ti lascia dentro un sollievo quasi infantile, e insieme una strana amarezza che somiglia a un piccolo, inutile ma pungente senso di colpa per il milione e mezzo di palestinesi che da Gaza non possono uscire.

La striscia è sigillata dall’estate del 2007, quando il movimento islamico integralista di Hamas ha preso il potere qui dopo una sanguinosa faida con Fatah, il partito dell’Autorità nazionale palestinese. I razzi qassam, fabbricati artigianalmente nei sobborghi di Gaza, continuano a colpire il deserto israeliano del Neghev e i centri urbani più vicini come Sderot e Ashkelon. Le rappresaglie israeliane sono puntuali.
Periodicamente tutti i valichi di confine vengono chiusi dal governo di Tel Aviv. A Gaza non entra benzina e la gente s’ingegna a far marciare le automobili con l’olio fritto o con il gas, che pure si prende dopo lunghe code alla centrale sulla strada del mare. I membri della famiglia si danno il cambio alla bombola da riempire, ci passano la notte, è un paesaggio costante quella lunga e assurda catena umana.
L’aria puzza, la situazione è senza logica, la gente scalpita di rabbia. L’emittente televisiva di Hamas, Al-Aqsa Tv, trasmette programmi per bambini che incitano all’odio verso il “nemico sionista”. I giovani, chiamati da Hamas, organizzano a giorni alterni delle manifestazioni ai valichi, decisi ad avvicinarsi al muro che li imprigiona. Arrivano a piedi o in bicicletta, una camionetta con le bandiere verdi di Hamas che fa gracchiare un altoparlante su note militaresche inneggianti alla fine dell’assedio. A Karni, il valico delle merci, accanto a capannoni industriali ormai spettrali, un giorno un ragazzo è morto a pochi metri da me, colpito da qualcosa sparato al di là dal muro. Prima i lacrimogeni, poi questo.

In un contesto tanto caotico che i media mondiali sembrano stufi di raccontare, sullo sfondo di un processo di pace drammaticamente impantanato, le organizzazioni umanitarie di tutto il mondo continuano a lavorare in cerca di un senso, di un obiettivo che non sia soltanto e semplicemente tamponare un’emergenza cronica. “Scriviamo un progetto in un certo modo, poi la crisi riesplode e dobbiamo rifare tutto, riorientare gli obiettivi” spiega Jerome Socie, coordinatore di Coopi in Palestina. “Verrebbe da dire basta, non siamo in grado di lavorare in simili condizioni. Ma questa responsabilità non possiamo prendercela“.
Coopi dal 2002 è presente in West Bank e a Gaza grazie ai finanziamenti di Echo, il dipartimento umanitario della Commissione Europea, con progetti che si chiamano di “job creation” o “cash for work”: “Diamo un lavoro temporaneo a chi vive sotto la soglia di povertà e ha un nucleo familiare di oltre cinque persone” dice Jerome. “Ogni beneficiario con noi guadagna 1200 shekel per 20 giorni di lavoro, circa 230 euro. Costruiamo argini, muretti, fognature, e forse riusciremo ad avviare un’attività di riciclo dei rifiuti“. Coopi, finora, ha dato quei 20 giorni di lavoro a 22 mila persone tra Gaza e West Bank, dove il 68 per cento dei palestinesi (il dato è della Banca Mondiale) vive sotto la soglia di povertà.

Nel suo ufficio a Gerusalemme Est, è Lina Rabadi di Echo (giovane e bella palestinese convinta che solo un miracolo possa salvare la sua terra) a spiegarmi il senso di questa continua turnazione di beneficiari: “La crisi, qui, è politica. Come agenzie umanitarie possiamo solo tentare di mitigarne gli effetti, e uno dei primi è l’assenza di un’economia, per i palestinesi. La loro economia dipende da Israele, e negli ultimi anni la disoccupazione è aumentata moltissimo, soprattutto a Gaza dove la gente prima andava a lavorare in Israele e oggi ha il divieto di uscire dalla striscia. Dare lavoro per pochi giorni, come facciamo noi, è una piccola cosa per l’economia palestinese ma alle persone più bisognose serve, ed è importante per la loro dignità. Non ricevono elemosina, ma l’opportunità di lavorare, di sentirsi ancora attivi dentro la comunità“.
Lina informa che Echo, per il 2008, ha stanziato 9 milioni e mezzo di euro per questi progetti di “cash for work”, che sono tra le loro priorità umanitarie accanto alla sanità, l’istruzione, la sicurezza.

Beit Hanoun sta appena oltre l’ingresso nord della striscia di Gaza, una municipalità con 42 mila abitanti, tutti profughi e disoccupati all’86 per cento, ci dice il sindaco Muhammad Naasit. Prima del 1948 qui fiorivano arance e cedri. Ora, per tutti, continua a sanguinare una ferita: nel novembre del 2006 una granata esplosa da un carro armato israeliano ha fatto strage di civili, bambini compresi. Lo ricorda con sgomento Ghalb Abu Hamsa, uno di quegli uomini che paiono vecchi come il mondo e invece avrà sì e no 45 anni. Ci offre un tè fortissimo nella sua casa mangiata dall’umidità, all’estremo confine di Beit Hanoun, in un salottino buio e rosa nelle pareti e nei divani. Ci racconta del lavoro con Coopi che gli ha dato un po’ di respiro.
Lui ha 16 persone da mantenere, in famiglia: sei figlie femmine, due maschi con rispettive famiglie. Gli altri due figli di Ghalb sono morti ragazzi, Ahmed mentre giocava a pallone, colpito da un missile sparato da oltre confine. L’altro, Ikrami, si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: un aereo israeliano bombardava un’auto dove presumibilmente si nascondeva un terrorista, e il figlio di Ghalb camminava, per caso, lì accanto. A Gaza si muore così, nel mezzo di questa guerra a bassa tensione.
“Fino al ‘96 ho fatto il muratore a Tel Aviv” racconta Ghalb “poi è finito tutto. Per un periodo ci ha aiutati molto uno dei miei figli, arruolato nell’esercito dell’Autorità Palestinese, ma ora che a Gaza comanda Hamas tutti i soldati di Fatah sono a casa e non ricevono alcun salario. Oggi, l’unica nostra entrata economica sono i 1400 shekel mensili che riceviamo dal governo per i nostri due shayd“. I martiri. Tutti coloro che sono stati uccisi da Israele sono martiri, qui. Tutti eroi.
Sharyhan, la figlia handicappata di quest’uomo, non capisce di cosa stiamo parlando e sorride. Ha 19 anni ma non sa di averli, è paralizzata dalla nascita su una sedia a rotelle, ritardata e dolcissima come una bimba piccola. Per lei la famiglia prendeva un sussidio, 100 shekel al mese, interrotto qualche mese fa senza spiegazioni.
Gli operatori di Coopi ci tengono a farmi conoscere situazioni ancora più disperate. Come quella di Jussef Muhammad Abu Oadeh, accampato in mezzo a un orto, in una radura di sabbia, con tutta la famiglia da due anni, dall’invasione israeliana che ha raso al suolo tante case compresa la sua. “Ci hanno gridato all’altoparlante di uscire, che stavano per demolire la casa” dice Jussef mentre sediamo per terra accanto alle varie baracche per uomini e animali che costituiscono la sua nuova abitazione. “E’ difficile per me descrivere quella notte miserabile“.
Sono in 22, in questo accampamento che puzza di escrementi d’asino. Ma Jussef è un uomo che ride, parla in continuazione, spera di tornare un giorno a lavorare in Israele, mostra fotografie impolverate. E racconta la sua tragedia nella tragedia: sei figli morti per insufficienza renale, uno dopo l’altro. Forse si sarebbero salvati con un trapianto, ma dove? Con quali soldi? “Ho 53 anni” spezza il racconto quasi a volermi dare sollievo “e ne dimostro un milione, vero?“.

Le albicocche di Gaza sono le più buone del mondo. Dolcissime, come la sensazione che mi ha invasa appena uscita da Erez, dopo sei ore di controlli e attesa. E poi il viaggio in macchina verso la città israeliana di Sderot, con i finestrini abbassati, la sigaretta finalmente accesa e i New Order a tutto volume. Come uscita di prigione, davvero.

L'articolo, come TUTTI i contenuti di questo sito, è di esclusiva proprietà dell'autrice. Ne è quindi vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo, senza chiedere preventivamente l'autorizzazione a Emanuela Zuccalà. E' invece benvenuta la citazione su altri siti e social network, purché contenga il link a questo sito.

Commenti

Post più popolari