LA CACCIATRICE DI BOSS


Guai a chiamarla “la bionda con la pistola”. Cristiana Mandara è il commissario capo della squadra che stana i latitanti. Ecco come ha catturato il Provenzano di Napoli. E il ministro degli esteri della camorra

Sta cenando, il boss. Cede a un impulso infantile e vano, di quelli che non si addicono alla mente strategica del crimine napoletano, al re dei quartieri Vasto e Arenaccia, al membro del “direttorio” dell’Alleanza di Secondigliano, il cartello di clan che ha promosso la camorra a imprenditoria milionaria, di cui il boss muove i fili da sette indisturbati anni di latitanza. Eduardo Contini o’ romano sogna di scomparire nello sgabuzzino di una casa circondata da decine di poliziotti. E a Cristiana Mandara basta aprire una porta per trovarsi faccia a faccia con il fantasma disarmato che insegue da due anni senza mai sentirne l’odore. Fino all’intercettazione ambientale decisiva, la sera del 14 dicembre 2007: si parla di cibo. Si capisce che Contini sta in quella casa bianca di Casavatore, alle porte di Napoli.


Non è dato sapere cos’abbia pensato o’ romano nel vedere un plotone di uomini armati agli ordini di una bionda giovane e carina, che qualche ora dopo, in questura, gli rivolge una frase non esattamente di circostanza: «Dev’essere difficile, sotto Natale…». E lui, riafferrando il suo ruolo di duro: «Per chi si nasconde non c’è Natale né Pasqua».
Cristiana Mandara dirige la sezione catturandi della squadra mobile di Napoli, quella che stana i latitanti. Ci incontra a patto di non uscirne come la bionda con la pistola, e riferisce quei momenti con aggettivi che si riservano agli incontri importanti. «Vederlo è stato emozionante. Sapevo tutto di Contini e del suo mondo. Mancava solo lui. Ci chiedevamo: chissà che c’avrà Contini, armi, botole per fuggire, doppi muri… Invece niente. Era troppo sicuro di sé». E le dispiace che la cattura di un boss di quel calibro non abbia eccitato i media quanto un arresto di mafia: «La mafia da morti eccellenti, per questo fa più notizia. Eppure Contini è il Provenzano della camorra» spiega, sistemandosi spesso i lunghi capelli dietro le orecchie e zittendo la musica reggae del cellulare. «È il leader di un clan che controlla una grossa fetta del territorio napoletano, con ramificazioni anche al Nord. È un peccato che si parli del suo arresto solo perché l’ha condotto una donna». Due, in realtà: le indagini le ha coordinate la pm Barbara Sargenti.



Cristiana però non poteva passare inosservata, in jeans e capelli sciolti fra decine di sagome scure che portavano il boss in carcere, ammanettato ed elegante come si conviene a chi, arrestato nel ’93 a Cortina prima del veglione di Capodanno, chiedeva gentilmente ai poliziotti di non sgualcirgli lo smoking. La scena della bionda e del camorrista si è ripetuta il 7 febbraio scorso con una seconda cattura eccellente: Vincenzo Licciardi o’ chiatto, altro super boss dell’Alleanza, erede del fratello Gennaro a’ scigna che aveva spostato gli affari dal centro alla periferia prima di morire in galera, e della sorella Maria a’ piccolina, regista dello spaccio fino all’arresto nel 2001. Licciardi gestiva una holding criminale da centinaia di milioni di euro, trafficando merci contraffatte tra Europa, America, Australia e Cina. Era il “ministro degli esteri”, colui che teneva rapporti oltre confine anche dalla latitanza, cominciata nel 2003. «Una volta ho rimandato le ferie estive per inseguirlo in Portogallo» sorride Cristiana. «A differenza di Contini, lui sentiva il nostro fiato sul collo. E ci ha sfiancati. Ci è sfuggito da una casa di Secondigliano attraverso un tunnel collegato con le fogne. È scomparso al buio nell’auto di un suo uomo che pedinavamo da tempo. Vinceva sempre». La catturandi gli dà scacco matto la notte del 7 febbraio in una villetta di Cuma, sul litorale flegreo sfigurato dalla monnezza. Lui è in pigiama, si agita. Dice: «Tanto lo dovevo fare il carcere. O mo’ o dopo, che cambia?».

Il commissario Cristiana Mandara ha 37 anni e un musicale eloquio partenopeo. È entrata in polizia perché cercava un lavoro dinamico, dopo la laurea in legge, e i racconti di un poliziotto in pensione, padre di un’amica, l’hanno affascinata. «Il mio primo incarico è stato alle volanti di Rimini, una realtà troppo piccola per me che preferisco l’anonimato. Volevo tornare a Napoli, i miei affetti sono qui» racconta nel suo ufficio spoglio al quarto piano della Questura di via Medina, mentre nelle stanze accanto i suoi uomini ascoltano in cuffia intercettazioni telefoniche e ambientali. «Noi ci occupiamo solo di latitanti: può non succedere nulla per settimane e all’improvviso arriva la pista giusta. Devi avere inventiva». Un’irrivelabile “idea geniale” ha portato al covo di Licciardi, dopo che gli agenti avevano battuto la zona travestiti da postini e pony express per infarcire gli edifici di cimici.
Il 7 febbraio Cristiana cenava con amici e il compagno Francesco, prezioso momento di relax in una quotidianità che la inchioda al lavoro per dodici ore. «Dottoressa venga, ci siamo». Il rimpiattino finiva.
Cristiana Mandara ha solo quattro donne nella sua squadra di 35 ed è abituata a comandare sugli uomini («Qualcuno ha i suoi schemi mentali ma si è dovuto adeguare»). Prima di capitare alla catturandi è ancora alle volanti. Ma Napoli non è Rimini. Sono i giorni della faida di Secondigliano, la mattanza tra i fedeli al clan Di Lauro e gli “scissionisti” di Lello Amato. Tra la fine del 2004 e il 2005 i morti ammazzati si contano a decine. Cristiana, che percorre la dannazione della periferia nord, ne ricorda uno su tutti: «Gelsomina Verde, 22 anni, uccisa e carbonizzata nella sua auto perché fidanzata con uno scissionista. Sentivo la puzza della carne che bruciava e fissavo il liquido che colava dall’auto chiedendomi “che succede a Napoli?”. Quella violenza non è la regola. Non è questa Napoli». E ora che l’Alleanza di Secondigliano è stata decapitata, cosa accadrà agli equilibri di una camorra dinamica e sfuggente? «Staranno già nascendo altri capi» dice il commissario «intanto però abbiamo tolto di mezzo i più potenti e carismatici. Non è detto che i nuovi li eguaglino».

Le leggo un dichiarazione di Giovanni Corona, il magistrato che prese il leggendario boss Paolo Di Lauro nel 2005: «Qui lo Stato è arrivato, ha guardato e se n’è andato». «Sono d’accordo» commenta Cristiana. «A livello centrale non ci si è mai posti seriamente il problema della camorra. Noi della squadra mobile, 450 in tutto, non possiamo essere soli in questa lotta. I camorristi non sono più forti di noi: arrestando due boss il sistema già si destabilizza. Però lo Stato deve far sentire la sua presenza, e insieme togliere alla polizia i compiti burocratici che ci distraggono dalle indagini».
Parliamo di scarcerazioni facili. Della macchina della giustizia che a Napoli s’inceppa e butta all’aria gli sforzi di chi sta in prima linea come lei. «Contini era stato scarcerato per decorrenza dei termini: è cominciata così la sua latitanza. Vincenzo Di Lauro ha evitato la cella perché dall’ordine di carcerazione mancava una pagina: un errore nelle fotocopie. In tutta Italia la giustizia è lenta, ma a Napoli fa più danno».

Napoli le fa rabbia, come la monnezza «che puzza di vomito». Ma lei non se ne va, «è la mia città» ripete senza velleità eroiche. Ormai la sua faccia i camorristi la conoscono: «Per i pedinamenti devo travestirmi» ride, perché non si sente un bersaglio: «La camorra è corretta, a modo suo: rispetta il gioco delle parti».La prossima preda del commissario Mandara è top secret. Sta tra le facce appese nell’ufficio accanto, i latitanti più pericolosi d’Italia. Otto di mafia, nove di ’ndrangheta, nove di camorra. Cristiana sorride. Beve succo di pesca. «Il mio prossimo obiettivo è un figlio. Contini e Licciardi mi hanno travolta e il tempo è volato. Ora finalmente posso pensarci».

Pubblicato su Io Donna, marzo 2008, con le foto di Mauro D'Agati

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